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Quando Alfano salvò Salerno

Garantismo e giustizialismo in Italia sono come il mantice di un’enorme fisarmonica. Post-categorie pieghevoli e adattabili, a seconda delle circostanze, alla retorica dell’indignazione o al silenz…

Pubblicato il: 05/02/2017 – 19:32
Quando Alfano salvò Salerno

Garantismo e giustizialismo in Italia sono come il mantice di un’enorme fisarmonica. Post-categorie pieghevoli e adattabili, a seconda delle circostanze, alla retorica dell’indignazione o al silenzio interessato. Più che la storia è la cronaca quotidiana del dibattito politico nostrano. Ma succede, talvolta, che questo canovaccio venga in qualche modo “superato” da una cautela trasversale che non cede nemmeno alle frasi fatte sulla fiducia nella magistratura e bla bla bla.

È il caso dell’inchiesta “Robin Hood”: secondo la Dda di Catanzaro guidata da Nicola Gratteri, un assessore della giunta Scopelliti, Nazzareno Salerno (accusato tra le altre cose di scambio elettorale politico-mafioso, sebbene il gip non abbia riconosciuto la gravità indiziaria per questo reato) sarebbe stato l’elemento centrale di un «comitato d’affari» che, in combutta con la ‘ndrangheta, avrebbe «rubato» un bel po’ di soldi pubblici che erano destinati alle famiglie disagiate. Ecco: in pochi hanno sentito la necessità di allargare il mantice e produrre qualche suono per commentare, in un senso o in un altro, questa inchiesta pesantissima. Ognuno, tra i lettori, si farà la propria opinione sul perché, e non si intende qui né criticare chi rimane in silenzio né esaltare la prosopopea dei paladini della giustizia. C’è un episodio, però, che molti oggi sembrano aver dimenticato e che invece è degno di nota. Solo perché si tratta di un fatto e, come tale, meriterebbe di rientrare nel racconto di una vicenda destinata a segnare la storia recente della Calabria.

Il fatto è di qualche anno fa. A cavallo tra il 2012 e il 2013 a Serra San Bruno si verificò una situazione che non aveva fino a quel momento precedenti nella storia del paese della certosa. A novembre 2012 la Prefettura di Vibo inviò una commissione d’accesso con lo scopo di indagare su eventuali infiltrazioni mafiose nell’attività amministrativa dell’ente. Il Comune era guidato da Bruno Rosi, sindaco di fede forzista scelto e fatto votare proprio da Nazzareno Salerno, che sui banchi del consiglio comunale era capogruppo di maggioranza (all’epoca sotto i vessilli del Pdl). La decisione di indagare sul Comune era stata presa dopo l’arresto di un ex assessore della giunta Rosi, coinvolto nell’operazione “Saggezza” della Dda di Reggio ma poi assolto «perché il fatto non sussiste». La commissione indagò per diversi mesi e produsse una relazione che l’allora prefetto di Vibo, Michele Di Bari – oggi a capo dell’Utg di Reggio –, inviò poi al Viminale con la richiesta di scioglimento del consiglio comunale per la sussistenza di infiltrazioni mafiose. Nel frattempo Salerno era stato nominato assessore regionale.

All’epoca il Corriere della Calabria pubblicò sul settimanale cartaceo (numero 107 dell’11 luglio 2013) un articolo in cui si dava conto di alcune delle valutazioni della commissione d’accesso (di cui facevano parte un viceprefetto, un vicequestore e un capitano dei carabinieri) su presunte commistioni tra ‘ndrangheta e amministratori pubblici a Serra. Si parlava anche di appalti boschivi, e da quella relazione emergeva come sul settore fosse costante l’influenza della cosca Vallelunga. Un’influenza che sarebbe già stata presente con le amministrazioni precedenti di centrosinistra (guidate da Bruno Censore prima e da Raffaele Lo Iacono poi) e che sarebbe rimasta tale con quella salerniana di centrodestra. Nelle carte veniva citata un’azienda che su 31 lotti boschivi messi in vendita in quegli anni dal Comune se ne era aggiudicati 19, sempre presentando un’unica offerta. Alcuni passaggi della relazione, poi, erano dedicati a presunti rapporti datati tra Salerno e la cosca locale. Intanto l’allora sindaco aveva avviato uno sciopero della fame e aveva pubblicamente minacciato di tagliarsi un dito se avessero sciolto il consiglio comunale. La sua falange però rimase integra: qualche settimana dopo, nonostante la richiesta della prefettura vibonese, il Viminale dichiarò archiviato il procedimento concludendo che non c’erano elementi tali da dimostrare la sussistenza delle infiltrazioni mafiose.

Era in carica il governo Letta e ministro dell’Interno era Angelino Alfano, oggi passato agli Esteri con il governo Gentiloni e all’epoca anche segretario nazionale del Pdl. Lo stesso partito di Salerno e Rosi, che querelarono il Corriere per aver scritto ciò che avevano riportato le forze dell’ordine nelle loro informative.

s.pelaia@corrierecal.it

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