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La bruttezza e la speranza. Un "New Deal" per la Calabria

Uno dei luoghi comuni che viene continuamente riproposto, a proposito della Calabria, è quello riguardo alla pochezza, o addirittura all’assenza, di offerta culturale, di monumenti, di centri stori…

Pubblicato il: 06/02/2017 – 14:07
La bruttezza e la speranza. Un "New Deal" per la Calabria

Uno dei luoghi comuni che viene continuamente riproposto, a proposito della Calabria, è quello riguardo alla pochezza, o addirittura all’assenza, di offerta culturale, di monumenti, di centri storici, di scavi archeologici o musei, degni di questo nome, da visitare. Nelle prossime settimane Battista Sangineto illustrerà, con una serie di articoli, la quantità e la qualità del patrimonio dei Beni Culturali e Paesaggistici in Calabria con le sue eccellenze e le sue problematicità.

Il paesaggio di una regione, rurale o urbano che sia, è l’immagine, lo specchio della ragione e come tale presuppone, in coloro che vi lavorano, erigono palazzi, costruiscono piazze, strade e scuole modificandone il volto, un’intima partecipazione al diritto di goderne, di gioirne e di apprezzarne la bellezza. La devastazione della gran parte del paesaggio e delle città calabresi è la dimostrazione che il riconoscimento e la produzione della bellezza sono attività che i calabresi non hanno esercitato, compreso ed interiorizzato da troppo tempo.
I cittadini e la classe dirigente di questa terra non hanno ancora compreso, non hanno voluto comprendere, che con la scomparsa delle città di antica fondazione e dell’antico paesaggio della Calabria si scardinava un fondamentale nesso psicologico di identità. Un antico edificio romano, un palazzo rinascimentale, i resti di una città magnogreca, una chiesa medioevale o i boschi della Sila e dell’Aspromonte rappresentano il deposito elettivo del ricordo, costituiscono la memoria sociale di una comunità, il suo più profondo connotato identitario. Se si perdono, anche tutto il resto, alla fine, si perde e muore come accade, di continuo, in Calabria.
In una temperie culturale nella quale i valori estetici tendono a essere antifunzionali ed antieconomici perché di ostacolo all’efficienza e alla misurabilità economica, la consapevolezza che una città del Mezzogiorno, Matera, sia stata scelta come capitale europea della cultura infonde, a noi meridionali, una speranza. Mi induce a proporre, ancora una volta, di rivendicare il valore della bellezza come risorsa sociale che può diventare, nel medio e nel lungo periodo, anche risorsa economica sotto forma di turismo. Le nostre città ed i nostri paesaggi sono stati generati, nel corso dei secoli, di modo che fossero anche esteticamente godibili, belli e attraenti perché il riconoscimento e la costruzione della bellezza sono necessari alla comprensione profonda della varietà e dell’interdipendenza di ciò che ci circonda: affetti, case, legami parentali, campi ben coltivati, strade, chiese, palazzi e paesaggi naturali. I calabresi, invece, vivono nella bruttezza, non ci fanno più caso, continuano ad erigere – accanto all’avito palazzotto o alla bella casa in mattoni e tegole rosse – imponenti quanto inutili palazzi a tre, quattro, cinque piani (dei quali di frequente solo il primo e/o l’ultimo sono completati) in cemento armato, foratini non intonacati, tetto in lamiera ed imposte in alluminio anodizzato realizzato in sfumature che vanno dal bronzo all’argento, nel più puro stile “non-finito calabrese”.

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Il paesaggio storico e naturale continua ad essere violentato, devastato, consumato in questa terra come dimostrano i dati raccolti dall’Istat: in Italia, fra il 1990 e il 2005, ben il 17% della superficie agricola utilizzata è stata cementificata o degradata e la Calabria, come accade spesso purtroppo, si pone in cima a questa classifica negativa con oltre il 26% del suolo consumato. Questo significa che, soprattutto in Calabria, la superficie improduttiva non solo è aumentata vertiginosamente, in un quindicennio, ma anche che la contrazione di terreni agricoli, laghi e boschi ha favorito, come constatiamo ogni inverno, il dissesto idrogeologico, portatore di frane e alluvioni, ed ha fatto aumentare la marginalizzazione di vaste aree ormai cementificate. La Calabria è la regione italiana che, sempre secondo l’Istat, presenta il maggior numero di abitazioni rispetto al numero di abitanti: 1.243.643 alloggi, di cui 482.736 vuoti, per poco meno di 2 milioni di residenti. Il dato relativo agli appartamenti vuoti è ancor più negativo perché se in Italia quasi un alloggio su quattro è vuoto, la Calabria presenta la maggior percentuale di case vuote: il 38,8%. E se in Piemonte abbiamo poco più di 3 abitanti per edificio, in Lombardia poco meno di 5, in Toscana poco più di 4, nel Lazio circa 5, nelle regioni meridionali, invece, abbiamo meno di 3 abitanti per edificio in Sardegna e in Sicilia e, addirittura, solamente 2,5 abitanti per alloggio in Calabria. Solo a Cosenza i vani vuoti sono 165.398 – numero che pone la città dei Bruzi seconda dopo Roma, in questa classifica negativa – mentre a Reggio Calabria sono state censite, dall’ISTAT, 40.000 stanze in più rispetto ai residenti. La Calabria ha complessivamente un totale di 798 chilometri di coste dei quali ben 523 (il 65%) sono urbanizzati e dunque trasformati da interventi antropici legali e abusivi. In particolare: 56,8 km risultano occupati da infrastrutture, viarie e portuali; 205,5 km risultano occupati dai centri urbani principali, mentre 261 sono i chilometri trasformati da una urbanizzazione poco densa, diffusa lungo la linea di costa. Restano “liberi”, a rischio cementificazione, 119 km di suoli agricoli e 156 km di natura inalterata. Per finire con le statistiche, c’è da ricordare lo studio di qualche anno fa, condotto dall’Università di Reggio Calabria, dal quale emergeva che gli abusi lungo i 798 km. di costa erano ben 5210: un abuso ogni 153 metri!

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L’attuale incapacità, evidenziata dai dati sopracitati, dei calabresi di distinguere, salvaguardare, e di produrre, la bellezza è, bisogna che lo si capisca, una condizione patologica della psiche, individuale e collettiva. Non mi stancherò di ripetere che la bruttezza genera disarmonia, incuria e disordine, produce incapacità di distinguere il bello dal brutto, il vero dal falso, il giusto dall’ingiusto. La bruttezza produce assuefazione all’assenza di regole estetiche e morali, genera immoralità diffusa e ‘ndrangheta.
Come dimostrano le statistiche sopra esposte, i calabresi – politici, classe dirigente, ma anche “società civile” – negli ultimi decenni hanno prodotto e vivono nella bruttezza, non ci fanno più caso, continuano a cementificare ogni collina, ogni vallecola, seguitano ad erigere, nelle città calabresi, imponenti palazzi che spesso rimangono vuoti per il doppio o per il triplo dei residenti e dell’eventuale, ma improbabile, domanda. Non sarebbe stato più giusto e, addirittura, più remunerativo, anche per le stesse imprese edili, ristrutturare i nostri secolari, gloriosi, ma ormai cadenti, centri storici cittadini ed i nostri bellissimi paesi abbandonati?
Il problema principale dello sviluppo, e del turismo, della Calabria non è l’assenza di Musei o di siti storici e archeologici da visitare, che invece abbondano, ma è la scomparsa del paesaggio, la distruzione di quello che i francesi chiamano “terroir”. Il “terroir” è un termine difficilmente traducibile in altre lingue, ma la definizione coniata dall'”Institut National des Appellations d’Origine” è quella che spiega meglio delle altre il significato della parola: “un savoir intellectuel collectif de production, fondé sur un système d’interactions”(un sapere intellettuale collettivo di produzione, fondato su un sistema di interazioni). Il sapere collettivo dei paesaggi calabresi dovrebbe essere rappresentato dall’enorme patrimonio culturale sedimentatosi per più di trenta secoli nel tessuto delle nostre città antiche, dei nostri tanti Musei, delle nostre tradizioni popolari, delle chiese, dei siti preistorici, dei palazzi dei nostri centri storici incastonati nel paesaggio che deve interagire, sistemicamente, con un sostrato eno-gastronomico ricco e vivo, con una ricettività alberghiera degna di questo nome e con un mare pulito e non inquinato come, sciagu
ratamente, è dappertutto in Calabria. Questo sapere intellettuale collettivo in Calabria non esiste perché il tessuto sociale, culturale ed economico è estremamente frammentato e non si è riusciti, neanche nei sessant’anni di governi repubblicani, a ricomporlo. Sono certo, pertanto, che l’unica strada per lo sviluppo di questa regione sia il restauro capillare e la ricomposizione dei nostri paesaggi storici e agrari. La maggior parte delle risorse regionali, nazionali e comunitarie dovrebbero essere indirizzate, in questa regione, all’aiuto e alla ricerca nei settori dell’agricoltura e dei beni culturali e paesaggistici al fine di creare un “terroir” che favorisca, assecondandone le vocazioni naturali, uno sviluppo vigoroso ed armonico dei paesaggi e della loro produttività.
Come vado scrivendo da tempo la devastazione del paesaggio, calabrese e non, conduce a quella che Ernesto De Martino chiamava “angoscia territoriale”, solo che a provarla non sono gli emigrati, cui si riferiva lo studioso negli anni 50, ma proprio coloro i quali, invece, rimangono, ora, nei luoghi natii, nei proprî luoghi, ma non li riconoscono più perché sfigurati dalle speculazioni edilizie. In questi ultimi decenni è nato ed è cresciuto un sentimento nuovo: la nostalgia per i propri luoghi non nel senso dello spazio, come accadeva agli emigrati, ma in quello del tempo. La nostalgia per il senso dei propri luoghi, i luoghi che si abitano, “hic et nunc”, in cui si vive, ma che sono stati devastati dalla cementificazione in questi ultimi decenni, luoghi che non sono più stabili come lo sono stati per secoli. Quei luoghi e quei paesaggi che hanno contribuito a costruire, e che continuerebbero a costituire, parte essenziale e irrinunciabile della nostra identità individuale e collettiva, se non fossero stati orrendamente deturpati e se non continuassero a esserlo.

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Spettava alla classe dirigente politica far uscire la Calabria dalla situazione disperata e disperante in cui si trova proponendo ed attuando un progetto complessivo di sviluppo economico, sociale e culturale. Questa classe dirigente di centrodestra e di centrosinistra, è evidente ormai a chicchessia, non è stata e non è capace di far nulla, è venuta meno al suo compito fondamentale di guida e di indirizzo. Bisogna che i calabresi comprendano, altresì, che la tremenda responsabilità di far parte di una società profondamente malata non può essere solo della politica e della classe dirigente, ma che essa è anche nostra, della cosiddetta “società civile” che nulla, o troppo poco, ha fatto per scrollarsi di dosso questo giogo. Abbiamo eletto e promosso un ceto dirigente che, negli ultimi decenni, è stato, prevalentemente, impegnato a creare alleanze trasversali e a fare affari, un ceto che si è rivelato del tutto privo di pensieri forti, privo di un’idea di come possa essere il futuro della regione, privo di “un’idea di Calabria”.
La Calabria appare, ormai, perduta: conta poco da un punto di vista elettorale (meno di due milioni di abitanti in calo per emigrazione e saldo demografico negativo), non conta nulla da un punto di vista produttivo (il Pil più basso d’Europa) e, soprattutto, costituisce un problema irrisolvibile per l’inestricabile commistione esistente fra ‘ndrangheta, classe dirigente e “società civile”, come inesorabilmente vanno sempre di più dimostrando le ultime indagini della Dda. Questa terra e i suoi luoghi, le sue città, il suo paesaggio sembrano essere irrimediabilmente perduti, ma l’esempio di Matera e l’ottimismo della volontà mi spingono, per l’ennesima volta, a dire, di nuovo, quanto sia urgente un immenso, capillare restauro dei territori che provi a dare armonia al nostro tessuto insediativo rurale ed urbano.
Per avviare e realizzare questa opera titanica bisogna che al centro della rinascita di questa terra sia posto il restauro del paesaggio rurale ed urbano calabrese. Bisogna concepire e realizzare un gigantesco e capillare piano di risanamento del territorio, del mare, dei boschi, dei fiumi e delle coste che impegni, da subito, alcune migliaia di giovani nel piantare alberi, rifare gli argini dei torrenti, allestire laghetti artificiali per la pesca, prevenire e spegnere gli incendi, ripulire le spiagge, i terreni incolti, i siti archeologici, i monumenti, ristrutturare case e paesi abbandonati riportandoli alla vita.
Uno dei primi atti del “New Deal” di Franklin Delano Roosevelt fu quello di progettare e finanziare un gigantesco piano di restauro del territorio, dei boschi, dei fiumi e delle coste che impegnò, a partire dall’estate 1933, alcune centinaia di migliaia di ragazzi fra i 18 e i 25 anni. Negli anni che seguirono due milioni di giovani lavoratori, soprannominati “L’armata degli alberi di Roosevelt”, piantarono 200 milioni di alberi, rifecero gli argini dei torrenti, allestirono laghetti artificiali per la pesca, costruirono dighe e strade di collegamento, scavarono canali per l’irrigazione, gettarono ponti, alzarono torri antincendio, combatterono le malattie degli alberi, ripulirono spiagge e terreni incolti.
Ecco cosa ci vorrebbe per la Calabria e per il Mezzogiorno: un “New Deal” fondato sul restauro dei paesaggi naturali e storici, dei paesaggi agrari e urbani che, riassumendo e semplificando, si possa chiamare “New Deal della cultura e dell’agricoltura”. Un “New Deal” nel quale la “redditività” del nostro patrimonio storico e naturale non risieda esclusivamente nella sua commercializzazione e neanche solo nel turismo e nelle merci che esso potrebbe produrre, ma in quel profondo senso di appartenenza, di identificazione, di cittadinanza che provocherebbe la ricomposizione materiale ed immateriale dei nostri luoghi, dei nostri paesaggi. Chiunque governi questa regione non solo non può non tenere conto della ricchezza, della varietà e della peculiarità delle antiche città calabresi e dei loro paesaggi agrari, ma ha, anche, l’obbligo politico e civile di avere come programma prioritario il restauro dei centri storici e dei loro paesaggi. Chi governa ha l’obbligo di avere un’idea della Calabria e anche il dovere di fondarla, come “conditio sine qua non”, sulla conoscenza della nostra antica, complessa e pluristratificata storia. Se la Regione Calabria non ha, allo stato attuale, né un assessore all’agricoltura, né uno alla cultura come si può solo pensare di sviluppare e rendere produttive, socialmente ed economicamente, queste vocazioni naturali della nostra terra?

*Archeologo – docente Unical

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