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Spagnuolo: «Cosenza nasconde i crimini sotto al tappeto»

LAMEZIA TERME È vero che a parlare di ‘ndrangheta a Cosenza non si fa più la figura degli alieni. Non è più un tabù, e di recente si è scoperto che clan “blasonati” come la cosca Muto sono entrati …

Pubblicato il: 14/02/2017 – 18:15
Spagnuolo: «Cosenza nasconde i crimini sotto al tappeto»

LAMEZIA TERME È vero che a parlare di ‘ndrangheta a Cosenza non si fa più la figura degli alieni. Non è più un tabù, e di recente si è scoperto che clan “blasonati” come la cosca Muto sono entrati in città con robusti interessi. C’è chi queste cose le dice dagli anni 80. Mario Spagnuolo, procuratore della Repubblica nella città dei Bruzi lo ricorda nell’intervista con Paolo Pollichieni, direttore del Corriere della Calabria, che andrà in onda nella puntata di mercoledì di Hashtag (ore 21 su Rtc, canale 17 del digitale terrestre).
«Negli anni 80 – spiega il magistrato nell’intervista realizzata negli studi di Newsandcom – dicevo che c’era un problema di associazioni di stampo mafioso diverse da quelle storiche ma con capacità organizzative che le facevano, e le fanno, ricadere nel paradigma del 416 bis. Cosenza si afferma come città mafiosa negli anni 50 e 60, quando si verifica l’esplosione urbana della città con la creazione dei ghetti». Cemento e crimine organizzato. Affari e omicidi di mafia, con l’aggressione allo Stato che si fa più virulenta: «Il più grosso processo di mafia l’ho fatto quando ero alla Distrettuale di Catanzaro. Si tratta di Missing, un procedimento nel quale si “raccontano” 90 omicidi e nel quale abbiamo ottenuto condanne all’ergastolo. E c’è un delitto che ha rappresentato un segno di resa dello stato: quello di Sergio Cosmai (direttore della casa circondariale di Cosenza, ucciso nel marzo del 1985, ndr)». Spagnuolo se la prende con la retorica che voleva la città lontana dall’accostamento a dinamiche e logiche mafiose: «Intanto i killer partivano da Cosenza per fare gli omicidi: questa era l’isola felice». L’ipocrisia di fondo, quello che oggi chiameremmo storytelling, è rimasta: «Su questo aspetto non ho trovato grossi cambiamenti (la carriera di Spagnuolo è iniziata a Cosenza negli anni 80, ndr): c’è un’abitudine tutta cosentina a mettere la sporcizia sotto il tappeto. Lo sto notando in materia di criminalità organizzata ma anche rispetto ad altre devianze criminali presenti in questa città ma che si tende volutamente a sottovalutare perché si deve dare l’immagine di una città viva, ricca, dove si sta bene e dove le disuguaglianze sociali probabilmente non si vogliono rappresentare». Sono realtà e rappresentazione che si scontrano. Capita spesso quando ci si confronta con le reazioni della politica alle inchieste giudiziarie. Il magistrato non sfugge alla domanda: «Dietro espressioni come “abbiamo fiducia nell’operato della magistratura” spesso si nasconde un gigantesco processo di deresponsabilizzazione dietro al quale ci può essere di tutto».
E non sempre questo “tutto” è troppo lontano da dinamiche criminali legate ai clan. Che Spagnuolo, negli anni trascorsi alla Dda di Catanzaro come procuratore aggiunto («ma eravamo così pochi che facevo regolarmente da sostituto») ha osservato mentre cambiavano pelle: «In quel periodo intuimmo che la criminalità organizzata stava cambiando: si stava trasformando in un soggetto che eroga servizi e prestazioni perché aveva necessità di recuperare consenso sociale. Quel consenso si perde se si viene individuati come l’organizzazione che dà la morte ai figli della propria terra. Così le cosche si sono messe a risolvere il problema di trovare delle badanti o manodopera a costo zero per non far chiudere le aziende calabresi».
Una mutazione genetica le cui tracce si leggono in filigrana anche nelle inchieste più recenti. Da Catanzaro a Vibo, Spagnuolo ha cambiato territorio ma non l’abitudine a guardare nelle pieghe della realtà. La sanità, per esempio. Il procuratore parla del processo per la morte di Federica Monteleone per spiegare quali siano le emergenze evidenziate dalle indagini: «Non si discuteva dell’errore del sanitario, lì il problema era che c’era un management che aveva messo in fase operativa una struttura che non aveva gli elementi di sicurezza minima per poter funzionare». Non è molto diverso da quanto accaduto in molte altre aree della Calabria: «È un problema che riscontriamo anche in altre realtà. Nel 2001-2002 sequestrammo il Pugliese-Ciaccio, per gli stessi motivi per i quali sequestrammo lo Iazzolino di Vibo Valentia e per i quali stiamo sequestrando aree dell’Annunziata di Cosenza. C’è un problema di incapacità di gestire a livello manageriale queste situazioni che sono di grandissima complessità: medici e paramedici sono le prime vittime».
E il rapporto con i privati? «Non so se c’è un tentativo di agevolare i privati. Le indagini evidenziano che in Calabria non c’è il privato, ma il privato convenzionato, cioè un privato che vive grazie alle convenzioni stipulate con la Regione. Tutto questo fa sì che si determinino situazioni di opacità. Le abbiamo trovate». Di più non si può dire. Né chiedere, dice chiaramente Pollichieni: «Certe domande non le abbiamo poste perché sapevamo che non ci avrebbe risposto, dato che non parla mai delle indagini in corso. Ci riserviamo di porle tra sei mesi, un anno, quando le inchieste daranno i loro frutti». «Bene, bene», risponde il procuratore.

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