COSENZA «Sono rimasto per un anno e mezzo ai domiciliari in clinica e non sono tornato al 41 bis». Sarebbe questo uno dei benefici di cui il pentito Samuele Lovato avrebbe usufruito nel suo soggiorno nella clinica “Villa Verde”. Il collaboratore di giustizia è stato sentito nell’aula 9 del tribunale di Cosenza nel processo sulle presunte false perizie mediche effettuate nella clinica di Donnici, nel Cosentino, nella quale, secondo l’accusa, i boss venivano ricoverati per evitare il carcere.
Sul banco degli imputati il professore Gabriele Quattrone di Reggio Calabria, il dottor Franco Antonio Ruffolo di Rogliano, il dottor Massimiliano Cardamone, di Catanzaro, il dottor Arturo Luigi Ambrosio di Castrolibero e Patrizia Sibarelli, moglie di Pasquale Forastefano. Martedì è proseguito l’esame di Lovato (già sentito come imputato di reato connesso). Il collaboratore ha riferito al pm della Dda Saverio Vertuccio e al collegio del Tribunale di Cosenza (presieduto dal giudice Enrico Di Dedda) come si è svolto il periodo di permanenza nella clinica, le visite effettuate dai medici e dei favori che in particolare Forastefano avrebbe ottenuto dai medici in cambio di denaro. «Non so – ha detto il pentito rispondendo alle domande di uno dei difensori, l’avvocato Franco Sammarco – con precisione da dove provenivano i soldi dati al dottore Ambrosio. A me risulta che c’erano alcuni periodi in cui il dottore Ambrosio stava sempre in clinica e solitamente c’era di mattina».
Il collaboratore ha fatto riferimento pure a presunti scambi di test per favorire i boss ricoverati ai quali – compreso lui – sarebbero stati dati test già con le risposte per far risultare alcune patologie. Diversi i non ricordo e le contraddizioni emersi nel controesame dell’avvocato Vincenzo Belvedere che difende il dottore Ruffolo. Il processo è stato aggiornato al 6 aprile per sentire Lucia Bariova, Lione e Antonio Forastefano, altri collaboratori di giustizia.
Mirella Molinaro
m.molinaro@corrierecal.it
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