È possibile che al Sud vada meglio che al Centro Nord sia pure nel settore primario dell’agricoltura? Questo sostiene il rapporto Ismea-Svimez, sia pure dello 0,3 per cento! A parere dell’istituto di ricerca che, più di una volta all’anno, diffonde dati che, ad una prima lettura, ti rincuorano: il rapporto si sofferma sulla crescita del valore aggiunto, delle esportazioni, degli investimenti e della occupazione.
Però? Man mano che ci si sofferma a scorrere l’intero rapporto si nota che la ricerca, nel migliore dei casi, sia stata fatta a gattopardo a volo d’uccello. Perché? Perché, neppure coi decimali, nella coltivazione, per esempio delle clementine, c’è stato uno zero virgola di aumento. Anzi. È vero che la ricerca Svimez si riferisce all’annata 2015-2016, ma quella 2017-2018, è andata come il granchio. Passi indietro alla grande. Anche perché quando l’offerta di un prodotto aumenta (il caso dello scorso anno), i prezzi alla vendita diminuiscono. Non si scopre l’acqua calda: è un sacro principio economico. Gli è che, però, questo principio vale sempre, tranne che per gli agrumi. Possibile? Basta andare in giro nelle campagne coltivate a clementine, arance o tangeli e si ha la prova provata che è così.
Non è un problema solo di raccoglitori africani di cassette, ma, in gran parte, dei “compratori-commercianti” e della concorrenza soprattutto spagnola. Che cosa è accaduto quest’anno?. L’annata precedente un mio intimo amico, proprietario, di poco più di un ettaro di clementineto era felice perché si trattava di “annata piena”, cioè c’era superproduzione. «Gregorio, il tuo amico quest’anno potrà spendere e spandere. Perché, ci sono almeno cinque “carri di roba». Cinque carri? Che significa cinquecento carri. Cinquecento quintali di clementine. Li dovrà vendere a non meno di venti centesimi al chilo! Come se avesse detto 50 o 60 centesimi! Tira e molla, molla e tira, se il mio amico non avesse regalato la “roba” – per usare un termine caro a Camilleri – a dodici centesimi, detratta la quantità caduta a causa del maltempo e del passare dei giorni, lo sventurato coltivatore della domenica non avrebbe preso neanche duemila euro. E meno male che avrebbe potuto guadagnare 500 quintali per venti centesimi al chilo! Cioè diecimila euro! A fronte di 6mila e passa spese per la coltivazione, con annessi e connessi. Per cui la delusione è stata inimmaginabile e si è tramutata in lacrime amare. Neanche per le spese. Che bisogna fare per il prossimo anno? Secondo te, chiede il mio amico. Non lo so, forse val la pena vendere oppure coltivare regolarmente e far finta di niente. Il mio amico ha optato per la seconda soluzione. Stesse spese, stessi lavori,stessi antiparassitari,stessi operai con la speranza che i 2017-2018 possa essere meno nero. Non ne parliamo di quanto costa l’Enel per irrigare! Anche qui la Regione dovrebbe intervenire per far pagar di meno la corrente elettrica destinata ad uso irriguo. Ma da questo punto di vista mai nessuno è intervenuto, mai un provvedimento equo è stato adottato.
Così sarà nel corso del 2018 sicuramente! Il risultato? Non si dovrebbe dire per la vergogna. Se qualche anno fa si potevano guadagnare diecimila euro – stesso terreno stessi lavori, stessi operai- questa annata è stata tra le meno remunerative che gli agrumicoltori della Piana di Gioia Tauro (non credo che nella Piana di Sibari sia andata meglio) possano ricordare. C’è stato un “guadagno ridicolo” utile solo per pagare meno di niente. Ho consigliato al mio amico di fare – come lavori – il meno possibile. Questo significa che la produzione l’anno prossimo tornerà a essere scarsa ed, inoltre, che risparmiando di qua e risparmiando di là, dai seimila euro, se ne potrebbero spendere cinquemila. Tentare non nuoce. E così sarà fatto.
Alla domanda sul valore del terreno, ai fini della vendita, accade come per le case in città. Tutte sfitte o invendute. Il terreno adesso vale la metà o poco più di sette-otto anni fa. Cosa fare? Ecco perché la Regione deve,magari delegando ad un esperto, prendere in pugno la situazione agrumicola.
Altrimenti il prossimo anno, ognuno dei proprietari dovrà decidere di (s)vendere o di abbandonare i terreni. Peccato di Dio! Anche per le conseguenze non solo climatiche. Se non coltivi la terra, che significa clementine, ma anche zucchine, cetrioli, cocomeri, lattughe ecc. in quantità casalinga, che resterà da fare ai contadini? Cosa si mangerà di davvero genuino? Di contributi per calamità naturali non se ne sente parlare! Si può andare avanti così? Certo che no! E chi si impegna a trovare una soluzione? Chi convocherà i produttori. A chi si dà una speranza di vita? A Nessuno.
Aiutati che il ciel ti aiuta e poi svendi la terra! Non c’è altro da fare, nessun Santo a cui rivolgersi. Le cooperative è assai difficile che decollino. C’è troppo individualismo dalle nostre parti.
*giornalista
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