VILLA SAN GIOVANNI Ci sono due uomini seduti su un tavolo che occupa il proscenio. Uno imbraccia una chitarra classica e l’altro ha in mano un’armonica a bocca. Il loro volto è familiare: giorni fa avevano occupato quelle stesse tavole per un concerto country rock. I “Bad Chili”, Domenico e Fabrizio Canale, entrano nel buio della sala, si esibiscono in un brano blues che sostituisce il pezzo d’apertura originale di “Due” di Jim Cartwright, spettacolo andato in scena ieri in doppia replica al Teatro Primo di Villa San Giovanni.
Nato nel 1989, il testo è qui proposto nella versione italiana di Serena Zampolli. La regia è di Massimo Mesciulam. Sul palco, Angela Ciaburri e Davide Mancini. La produzione è della Compagnia Randevù in collaborazione con lo Stabile di Genova. Sugli ultimi giri di chitarra, i due attori sono in scena appoggiati a un bancone da bar che occupa il centro dell’azione. A completare la scenografia: due appendiabiti su entrambi i lati del palco con qualche vestito, uno sgabello e altri oggetti alla base. Un cambio luci e i due interpreti sono ora soli. Il tavolo del proscenio è libero e si riescono a distinguere bicchieri, calici e boccali di birra sul bancone. Si è in un pub. Questa coppia di baristi lavora animatamente per spegnere la sete dei clienti abituali. È ricco di convenevoli il loro discorso con gli altri. Molte paroli edulcorate e tante piccole attenzioni per gli ospiti; parole sprezzanti di odio e risentimento tra loro. «Stronza» e «cagna in calore», sono gli epiteti che l’uomo con il sorriso sussurra alla moglie, mentre lei flirta con il «cucciolotto» di turno presente nel locale. Si è in medias res: rancore, insoddisfazione e dolore profondo. Questi gli elementi che, durante la pièce, troveranno vita in 14 personaggi con abiti, accenti e contesti diversi. Il tutto giocano in una sola notte, davanti a tanti boccali di alcol. Partendo da questo pub di provincia, assisteremo alla vite di chi trova nel fondo di un bicchiere una possibile catarsi. C’è un’anziana donna col marito in fin di vita la cui devozione è pari alla stanchezza «finita la giornata me lo merito un bicchierino?»; Moth e Maudie, lui interessato ai soldi della donna, quest’ultima che si guadagna una promessa di matrimonio col ricatto. Poi c’è un uomo cieco, che convive col ricordo della moglie morta; Miss Inger, eccitata dagli uomini possenti; Leslie e Roy, una coppia di francesi: asfissiante e geloso lui, sottomessa lei; Alice e Fred, con problemi mentali e di peso; una giovane amante, che si nasconde dietro il bancone per spiare l’amato a cena con la moglie. Questi personaggi, che in alcuni casi non hanno nomi (da copione, old man o old woman) e che non torneranno mai più in scena, si inseriscono nei sette ingressi dei gestori del locale, durante i quali la storia di coppia si sviluppa. Il compito è messo in mano agli attori che supportano con talento il qui e ora dei personaggi. Angela Ciaburri e Davide Mancini ricoprono più ruoli senza spezzare mai la continuità narrativa. Non ci sono pause o uscite per i cambi d’abito: tutto è a vista sul palco. Spesso le voci di chi sta per entrare, arrivano in scena prima dei corpi; corpi goffi o zoppicanti, fisici artefatti o disabili, posture curve, simbolicamente schiacciate da se stesse. Si è in tanti, ma si è solo e sempre in due. Mentre Davide Mancini crea ruoli che molto hanno a che fare con la sua vera fisicità, Angela Ciaburri vive tanto nel paraverbale. Il suo vero strumento è la voce che graffia quando è ferita, ma diventa dolce nell’unico momento in cui la storia lo prevede. Entra in scena un bambino che esiste pur non avendo volto. È l’elemento che porta l’odio a prendersi una pausa.
La scena diventa contenitore intimo di un confronto moglie – marito che non può risolversi in un linguaggio classico al quale sono entrambi sordi: il dialogo a viso aperto. La soluzione in un espediente moderno: il cellulare. «È una storia che avanti da troppo tempo, io ne vorrei parlare ora», commenta la donna. Cambiano i toni, le luci diventano calde, si smonta la scena bottiglia, dopo bottiglia. Ci si prende il tempo per concedersi degli attimi silenziosi che non lo sono mai davvero. Si scopre la vera radice di tutto questo irrisolto: una perdita grave avvenuta sette anni prima, che ha reso la coppia due estranei. «Alla base di tutto c’era amore e invece oggi c’è solo il disprezzo». È un dolore fatto di colpe, lasciate a macerare per troppo tempo. Poi riaffiorano i ricordi; quei momenti in cui «litigavamo divertendoci». Ora, tolte le maschere della sopravvivenza, ci si riconsegna all’altro come umano e fallibile, per ritrovarsi in un amore sopito da tempo.
Miriam Guinea
redazione@corrierecal.it
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