Dj Fabo è arrivato nella clinica svizzera dove incontrerà dolcemente la fine di una vita, che, con lui, non è stata generosa.
Quando nasciamo la promessa è grande: fra un vagito e un pianto, noi neonati passiamo tanto tempo a sorridere e a meravigliarci di ogni scoperta. La nostra infanzia, poi, è una giostra di progetti per il futuro. Da “io voglio fare la parrucchiera, la maestra, la mamma…” a “da grande voglio fare l’astronauta, il poliziotto, il papa…” è tutto un sogno da realizzare. L’adolescenza ammorbidisce e la gioventù affievolisce. Poi, è il tempo dei “piedi ben piantati in terra” e della realizzazione.
A volte – sempre più spesso, purtroppo – il sogno si infrange, il progetto va in frantumi. E ci si ritrova a chiacchierare con l’asta della flebo, a passeggiare stringendo il bracciolo della carrozzina, a perdersi nel cielo finito di una camera – sempre la stessa – che diventa tana e prigione.
Se mi ammalerò, chiederò, anche io, di essere accompagnato. Magari non in Svizzera. Magari, senza bisogno di allontanarmi dal profumo delle zagare, dalla carezza argentata dei miei ulivi, dal calore della mia casa. Questo ventre da cui e in cui sono nato e che vorrei fosse la serena stazione di partenza del treno che mi porterà all’appuntamento con mio Padre, partito prima di me.
Non so cosa ne pensi la Chiesa a cui appartengo o il Partito al quale sono iscritto: so cosa ne penso io. A prescindere. E penso che, dopo aver visto le Persone Care patire il martirio della malattia, io vorrei poter morire col sorriso sulle labbra e la pace nell’anima. Fosse anche prodotta da un farmaco e offerta da una mano pietosa.
Senza null’altro da dire.
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