VIBO VALENTIA Un omicidio consumato tra amici, anzi tra “compari”, in un contesto paesano che però, questa volta, a detta gli inquirenti non si è rivelato omertoso. A uccidere Bruno Lacaria, commercialista 52enne il cui cadavere è stato ritrovato ieri tra i boschi del monte Lacina, è stato il suo “compare d’anello” Giuseppe Zangari, 46enne commerciante di prodotti per l’agricoltura. Fino a ieri pomeriggio l’uomo non risultava iscritto nel registro degli indagati per quello che in un primo momento era stato configurato come un sequestro di persona, ma i sospetti degli inquirenti si erano addensati su di lui fin dalle prime ore della scomparsa di Lacaria, svanito nel nulla da Spadola la mattina dell’8 febbraio scorso. I carabinieri di Serra San Bruno hanno accertato che quella mattina Lacaria fosse salito in auto proprio con Zangari. Quest’ultimo però aveva detto di aver riaccompagnato l’amico subito dopo, proprio a pochi passi da dove è stata poi ritrovata la sua auto, ma questa circostanza non è mai stata riscontrata. Così come molto sospetto si è rivelato l’episodio del giorno successivo: dopo essere uscito dalla caserma dell’Arma di Serra dove era stato interrogato per la prima volta, Zangari si è recato in un magazzino di sua proprietà (oggi sotto sequestro) dove è stato soccorso per un avvelenamento. Ai militari che lo hanno interrogato già prima che fosse trasportato all’ospedale di Locri, dove poi le sue condizioni sarebbero migliorate, Zangari ha raccontato di essere stato costretto a bere pesticida da due uomini armati e a volto coperto. Una «messinscena», per simulare un tentativo di suicidio o per allontanare i sospetti, che però ha avuto l’effetto opposto: da quel momento si è capito che qualcosa in quel racconto non tornava e quindi gli investigatori dell’Arma hanno cominciato a stringere il cerchio. Mentre le ricerche di Lacaria andavano avanti, soprattutto nei monti che sovrastano i tre paesi (Spadola, Brognaturo e Simbario) alle porte di Serra, con l’ausilio delle squadre speciali dei vigili del fuoco e dei cani molecolari, i carabinieri si sono avvalsi degli specialisti del Ris di Messina che hanno passato al setaccio sia il negozio che il magazzino di Zangari.
A 19 giorni dalla scomparsa, quindi, la svolta: nel pomeriggio di lunedì Zangari si presenta in caserma assieme al suo avvocato, Enzo Galeota. Ne viene fuori una confessione in cui l’uomo ammette di aver ucciso l’amico e indica agli inquirenti il luogo in cui, qualche ora dopo, sarebbe stato trovato il corpo. Sebbene in stato di decomposizione, Lacaria è stato subito riconosciuto da alcuni familiari che hanno visto i vestiti che l’uomo indossava al momento della scomparsa. Durante la notte viene dunque emesso il decreto di fermo di indiziato di delitto nei confronti di Zangari, trasferito nel carcere di Vibo con l’accusa di omicidio volontario e false dichiarazioni rese al pm.
Davanti ai cronisti il procuratore facente funzioni Michele Sirgiovanni e il sostituto Filomena Aliberti hanno spiegato che all’epilogo della vicenda si è arrivati grazie al lavoro del Nucleo operativo e della Compagnia dei carabinieri di Serra, guidati rispettivamente dal maresciallo Massimiliano Staglianò e dal capitano Mattia Ivano Losciale, affiancati in conferenza stampa dal comandante provinciale Gianfilippo Magro e dal comandante del Nucleo investigativo di Vibo Valerio Palmieri. La confessione, ha aggiunto Sirgiovanni, si è andata a inquadrare «nel giusto quadro investigativo che era già stato messo a punto». Zangari, insomma, «è stato messo con le spalle al muro». La ricostruzione della dinamica dell’omicidio resta però ancora tutta da approfondire. Zangari ha raccontato che sarebbe stato Lacaria a chiedergli di arrivare nel luogo, in località “Scaglione”, in cui è stato poi ritrovato il corpo. Lì sarebbe nata una discussione, una lite violenta, e il 46enne avrebbe colpito l’amico con un bastone, uccidendolo. Ma l'”arma” del delitto finora non è stata ritrovata.
Sergio Pelaia
s.pelaia@corrierecal.it
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