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Nella tendopoli dove muoiono i fratelli – VIDEO

ROSARNO Oggi non brucerà nessuna baracca, oggi Rosarno non è Rignano: lo era ieri e lo sarà ancora domani, non oggi. Oggi Dio ha allargato le mani e ha aperto quel cielo plumbeo che ora mitraglia d…

Pubblicato il: 08/03/2017 – 15:23
Nella tendopoli dove muoiono i fratelli – VIDEO

ROSARNO Oggi non brucerà nessuna baracca, oggi Rosarno non è Rignano: lo era ieri e lo sarà ancora domani, non oggi. Oggi Dio ha allargato le mani e ha aperto quel cielo plumbeo che ora mitraglia di pioggia e grandine e vento la tendopoli di San Ferdinando. Adesso la tragedia pugliese, i due maliani morti nell’incendio del Gran Ghetto, lascia la scena alla nuova ma vecchia tregenda degli elementi, tutti concentrati in quel fazzoletto di terra gonfio d’acqua, carico di lamiere e di umanità perduta. Come ieri, come domani, proprio come oggi, è tempo di mostrare una volta di più il volto d’ebano alle sferzate della Natura. Che, impietose, picchiano su una quotidianità di braccianti già fiaccati dal Fato e dalle condizioni inumane in cui si trovano.
Dalla tendopoli non può uscire nessuno, ora. Tutte le uscite sono presidiate da carabinieri e polizia. Dentro è in corso una maxioperazione di controllo del territorio, una delle tante. Perquisizioni personali e nelle case di tela e lamiera. L’assedio del cielo e la realpolitik delle forze dell’ordine.
Un ragazzo in bici si avvicina indifferente all’uscita, il poliziotto agita il dito e lo rimanda indietro. Un altro protesta in modo più veemente: niente, tutti dentro fino a nuovo ordine.

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(Video di Alessandro Tarantino)

LE TENDOPOLI Quello dei migranti africani che ogni stagione arrivano a frotte per raccogliere gli agrumi della Piana «è un problema che non abbiamo affrontato in modo serio ma solo con provvedimenti tampone», dice il sindaco di Rosarno, Giuseppe Idà. A poco o nulla, finora, è servito il Protocollo – firmato un anno fa da Regione Calabria, Prefettura e Comuni – che, con un finanziamento di 300mila euro, avrebbe dovuto consentire la costruzione di una nuova tendopoli – più piccola e più funzionale rispetto alla baraccopoli attuale – e la promozione di diverse politiche abitative alternative. Non è cambiato quasi nulla. Nello spazio destinato al nuovo insediamento ci sono solo la ghiaia a terra e il cancello d’ingresso (i lavori, garantisce il sindaco, procederanno con maggiore velocità a maggio, al termine della stagione di raccolta). Idem per le forme di integrazione alternative: i 36 alloggi destinati ai migranti sono ancora vuoti.
A Rosarno, San Ferdinando e nei Comuni limitrofi, però, il caos sociale non conosce moratorie. «Il nostro è un paese invaso», spiega con schiettezza Idà. «Stiamo facendo operazioni per verificare il numero di migranti presenti nel territorio, ma è complicato, anche perché è molto diffuso il fenomeno degli affitti in nero e delle case all’interno delle quali si trovano stipati tantissime persone».
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DESTABILIZZAZIONE Il popolo dei raccoglitori è un’altra umanità che si mischia, non senza traumi, a quella indigena. Una comunità disperata che cerca protezione da una popolazione locale già sfiancata di suo, dalla ‘ndrangheta e dalla malamministrazione politica, dalla indifferenza romana e dalla incapacità di superare antiche contraddizioni. La miscela è esplosiva. Scorrono le immagini della rivolta del 2010, ritorna con un brivido la successiva rappresaglia dei rosarnesi e le loro parole di intolleranza contro gli stranieri.
Chi può dire se questa fetta di Calabria sia di nuovo sull’orlo di un precipizio. Il sindaco Idà ammette di avere pochi strumenti a disposizione. I migranti accrescono i problemi strutturali: «Non fanno la differenziata e non possiamo sanzionarli»; «hanno traumi personali che spesso sfogano con l’alcol e le risse»; «molte donne sono costrette a prostituirsi per le strade».
Parliamo di una bomba sociale, oltre che sanitaria. «C’è un enorme problema di disagio umano, ma tra i cittadini esiste anche la paura di altre possibili ribellioni e di malattie. Da un’indagine fatta da una commissione consiliare è emerso che ci sono molte farmacie che vendono prodotti per la tubercolosi», ammette il capogruppo di Forza Italia in Comune, Giacomo Saccomanno.
«Le condizioni di vita nella baraccopoli», conferma Giulia Bari, coordinatrice di Medici per i diritti umani, «sono estremamente precarie, non a caso le malattie sono legate alle condizioni di vita e di lavoro: patologie gastrointestinali, osteomuscolari e alle vie respiratorie. Questo perché qui si vive e si mangia facendo un fuoco fuori dalla tenda o usando acqua contenuta in bidoni di lamiera». Andrà meglio con la nuova tendopoli? «Le prospettive sono comunque preoccupanti. L’idea di fare un insediamento in una zona industriale significherebbe avere di nuovo centinaia di persone aggregate in aree isolate, senza che questo comporti un’integrazione nel tessuto urbano, la soluzione più semplice per questi lavoratori».
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L’ACQUITRINO Il campo ora è un acquitrino. Le vie nate dalla disposizione dei tendoni sono canali navigabili. Molti, assenti al momento del blitz delle forze dell’ordine, tornano dai campi inzuppati fradici. Alcuni a piedi, la maggior parte in bicicletta. Iniziano le operazioni per affrontare la notte: cibo e calore. Davanti a una “casa” è stato posizionato un recipiente in ferro coperto da una griglia di metallo forato. Fuoriesce un fumo timido, da quella stufa artigianale. Un uomo sulla cinquantina, quasi incurante del lago fangoso in cui si trova, svuota una bacinella d’acqua nei suoi stivaloni da campo, per pulirli. Al bazar interno, nessuna fila. Dietro al bancone ecco un ragazzo dal sorriso pulito e i denti bianchissimi. Anche la sua camicia è bianca e stiratissima, quasi un non sense, qua dentro. «Sì», concorda, «quest’anno va molto peggio, peggio che negli anni scorsi». E non si riferisce agli affari. Nelle dispense improvvisate campeggiano bottigliette di ogni tipo, tutte sottomarca. La Coca cola, però, è originale, in lattine da sei.
«La vita qui è un macello, non so come spiegarmi: il cambiamento non c’è, “siamo male”». Lui è un giovane sulla quarantina, della Costa d’Avorio. Ha un cappellino alla Bob Marley, gli occhi irrorati da strisce gialle: è itterizia. «La situazione è molto difficile, ma non sappiamo la colpa di chi è. Ogni anno veniamo qua, ci sono i controlli, ma non cambia mai niente. Non voglio parlare, c’è solo la miseria, arrivano i giornalisti ma non succede nulla. E allora, che devo dire ancora?».
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SOLIDARIETÀ «Quello rosarnese», chiarisce il sindaco, «è da sempre un popolo solidale. Rimane inteso, però, che serve un’azione di responsabilità da parte di tutti. Si deve comprendere che un paese come il nostro, un posto di frontiera, non è in grado di accogliere da solo migliaia di migranti ogni anno. Pensare di far gravare i costi dell’accoglienza su un’unica comunità è una follia che non possiamo reggere».
«Nei primi anni», riflette Saccomanno, «i rosarnesi hanno sempre sostenuto e aiutato i migranti, ma oggi la situazione è più difficile, dato che stiamo parlando di un numero elevatissimo, circa 4mila persone».
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I CONTAINER Cambio scena, pochi chilometri più in là. Il campo container. È quasi vuoto, gli uomini d’Africa sono ancora nei campi. Le condizioni i
gieniche, qui, sono pure peggiori. A pochi passi dalle abitazioni fornite dal ministero dell’Interno la strada è ingombra di montagnole di rifiuti, trasformate in poltiglie fetide dalla pioggia. Un ragazzetto usa una piccola vanga per sistemare la terra accanto al suo container. Calzini spaiati e indumenti sono attaccati a ogni rete. Su tutte le pareti disponibili sono appoggiate una o più biciclette, perlopiù arrugginite. La puzza è insopportabile.
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(Il campo container)

Nella tendopoli, pochi chilometri più in qua, sta arrivando la notte. Le temperature scendono. Bisognerà accendere altri fuochi, nella speranza che non sia l’acqua del cielo a impedire a una tenda di prender fuoco. Oggi come poche settimane fa, quando una ragazza è rimasta gravemente ustionata a causa di un incendio. Tragedie. Come quella del giovane maliano, ucciso l’anno scorso da un colpo di pistola partito a un carabiniere.
La terra bagnata, in questa fredda notte di marzo, accresce la sensazione di aver fatto qualcosa di male a Dio, o alla Natura. Mamadou, un mediatore culturale del Senegal, ha intuito che quello tutt’intorno è uno dei tanti popoli abbandonati dei giorni nostri: «Chi viene qui tocca tutto dal vivo, vede le condizioni disumane in cui vivono queste persone. Vede come crepano questi fratelli».

Pietro Bellantoni
p.bellantoni@corrierecal.it

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