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“Giulio Cesare” torna in scena

RENDE Inizia con un colpo di frusta che rompe il silenzio attorno alle quattro pareti create con teloni bianchi. “Giulio Cesare. Pezzi staccati” ideazione e regia di Romeo Castellucci, prodotto dal…

Pubblicato il: 16/03/2017 – 11:48
“Giulio Cesare” torna in scena

RENDE Inizia con un colpo di frusta che rompe il silenzio attorno alle quattro pareti create con teloni bianchi. “Giulio Cesare. Pezzi staccati” ideazione e regia di Romeo Castellucci, prodotto dalla compagnia Socìetas Raffaello Sanzio, tratto dalla tragedia di William Shakespeare, ritorna sulle scene dopo vent’anni dal debutto (era il 1997) con un aspetto diverso. Quattro le repliche previste (dal 14 al 16 marzo), per uno spettacolo pensato solo per un numero chiuso di spettatori (80 in tutto). Ieri, la doppia replica alle 18:30 e alle 21 e l’incontro con il regista nel foyer del Teatro auditorium dell’Università della Calabria di Rende, hanno fatto il tutto esaurito.
Ci si trova sul palcoscenico del Tau circondati solo da tende bianche. Sul fondo, su una struttura in metallo, sono disposte in fila nove lampadine. Una scaletta con tre gradini, un cubo e un impianto luci. Niente di più. Irrompono sulla scena due uomini (gli attori, Ciccio Aiello e Francesco Rizzo) che anticipano l’ingresso di “…vskij” (Sergio Scarlatella) con in mano un endoscopio. Lo collega all’impianto video e proietta alle sue spalle l’immagine che cattura dal suo volto: la guancia, l’occhio, l’orecchio, la bocca fino all’ugola. Ne scruta ogni angolo, ma è dalla narice sinistra che penetra nel corpo e si ferma sull’apertura della glottide. Si consuma la prima scena del primo atto. Dalla gola di “…vskij” “escono” Flavio, Marullo, un ciabattino e alcuni popolani. Ogni parola vibrata e pronunciata è vista nel suo farsi. I muscoli della gola si contraggono. Le immagini alle spalle dell’attore sono metafora di una parola che si riconsegna a se stessa. Si è nel dominio della retorica; delle grandi orazioni e influenze di Cicerone e Quintiliano. Sfilato l’endoscopio dal naso, “…vskij” va via, portando con sé il suo strumento di potere. In pochi secondi, la scena è pronta ad accogliere Giulio Cesare (Gianni Plazzi). È sufficiente spostare i due elementi scenici per avere un pulpito. L’ingresso del console romano è anticipato dall’incedere lento e cadenzato degli zoccoli di un cavallo. Lo si sente arrivare da dietro le quinte. Giunto sulla scena due uomini in vestale bianca scrivono sul suo dorso la frase “Mene Tekel Peres”, tre parole in aramaico antico tratte dalla Bibbia dal libro di Daniele (presagio di morte e distruzione per il re Baldassare che era infedele a Dio). I movimenti di Cesare sono scanditi da un suono. Sembrano fendenti che vibrano nell’aria. Non farà altro. Indica i senatori, agita le braccia, ma non esce alcun verso dalla sua bocca. È un Giulio Cesare ormai caduto, privato del suo potere, mostrato spoglio, vittima sacrificale di una congiura che sta per consumarsi. Quel «Tu quoque, Brute» è un seno, staccato dal petto dell’uomo da cui ci si è nutriti; gettato sul proscenio e scansato con indifferenza col piede. Il corpo del console romano è avvolto nella sua stessa tunica rossa; ne diviene il sarcofago e, trascinato tra gli spettatori, portato fuori scena. Il discorso di Marcantonio (Maurizio Cerasoli) è l’eclissi della parola che chiude il cerchio. Interpretato da un attore che ha subìto una laringectomia, la voce subisce uno sforzo; è ovattata, roca e arriva poco comprensibile. Si passa attraverso lo sforzo muscolare e fisico di chi è impossibilitato a parlare. È funzionale alla comprensione del dolore, della stanchezza, della perdita che quel «Amici, romani, concittadini…» comporta. Giulio Cesare rientra in scena, coperto in volto col suo cuore in mano. Marcantonio lo impugna e lo sbatte sulla sua bocca. Parole pronunciate col sangue macchiano la candita tunica. L’ “Ars” (oratoria) adesso è solo indicata. Il mantello di Cesare (una grande busta di plastica) è abbandonato sul proscenio. Nell’andare via, riecheggiano in teatro le parole del Marcantonio interpretato da Marlon Brando nel film di Joseph L. Mankiewicz (1953). È un piccolo omaggio al cinema che si mette al servizio della drammaturgia. Si accendono le 9 lampadine, adesso unica fonte di illuminazione. Sulla durata del lungo monologo, si spegneranno una alla volta, strette dalla morsa che un torchio meccanico esercita su di loro. Il buio consegna a Cesare la sua immortalità.
Del lavoro del 1997, Romeo Castellucci ha conservato i due discorsi principali, quello della Roma politica con il popolo e l’altra dei campi di battaglia, in cui vive la perdita e la malinconia di Marcantonio. Al centro, la parte aggiunta di un Giulio Cesare in declino.
Pezzi staccati. Frammenti di voci, di parole, di potere, di nomi. Di quel “…vskij” che sfugge, come la fine di una parola che non viene mai colta. Potrebbe essere il volere del teatro di riappropriarsi della propria identità (citando Stanislavskij), ma non è mai svelato. Frammenti di virilità: in un dramma al maschile come quello del Giulio Cesare, l’unico elemento legato al femminile si scopre proprio nella cavità della bocca dell’uomo. È chiara l’analogia anatomica tra la glottide e l’organo sessuale femminile. Privata del corpo, manipolata con grande efficacia e strategia, la parola è carica di violenza anche quando tace.

Miriam Guinea
redazione@corrierecal.it

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