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Don Panizza: «Il mio primo incontro con la 'ndrangheta»

LAMEZIA TERME “Meno sbirri più lavoro”. Il colloquio tra Paolo Pollichieni e don Giacomo Panizza parte dalla frase che ha imbrattato i muri della sede vescovile di Locri. Una “risposta” simbolica a…

Pubblicato il: 21/03/2017 – 14:27
Don Panizza: «Il mio primo incontro con la 'ndrangheta»

LAMEZIA TERME “Meno sbirri più lavoro”. Il colloquio tra Paolo Pollichieni e don Giacomo Panizza parte dalla frase che ha imbrattato i muri della sede vescovile di Locri. Una “risposta” simbolica ai discorsi del presidente Mattarella, del presule Francesco Oliva, di don Ciotti. Proprio prima della giornata in cui 25 mila persone hanno ricordato le vittime innocenti delle mafie. Di queste “risposte” il prete che lavora da 40 anni nei quartieri più difficili di Lamezia Terme ne ha già ascoltate parecchie. E ha sentito anche le domande, le proposte inaccettabili degli emissari dei clan e «dei politicanti», come li chiama nell’intervista che andrà in onda mercoledì alle 21 su Rtc (canale 17 del digitale terrestre).
Sono due i racconti che si sovrappongono nei 45 minuti dell’intervista realizzata negli studi di “Newsandcom”. E servono per capire se sia peggio, giusto per banalizzare, l’atteggiamento delle cosche o quello della politica interessata a lucrare voti.
Il primo incontro con la ‘ndrangheta avviene 15 giorni dopo l’arrivo del religioso in Calabria. «L’ho vissuto – spiega Panizza – non capendo ciò che accadeva, per fortuna, altrimenti chissà come avrei reagito… Ricordo che avevamo fatto partire il primo laboratorio di artigianato, perché non avevamo entrate, dovevamo sostentarci, così ci siamo inventati il lavoro del legno, del rame, il lavoro artigianale. Dopo 15 giorni sono venuti due giovani a chiedermi i soldi per gli amici in carcere». Per il prete arrivato dal Nord quella richiesta ha un solo significato, quello letterale: «Per me voleva dire semplicemente che avevano degli amici in carcere. Per fortuna uno dei miei collaboratori ha capito il senso della domanda e li ha scacciati a bastonate». Conseguenze immediate: «Siamo usciti e abbiamo trovato le ruote del pullmino tagliate. A quel punto m’han spiegato che la mafia fa così. Io a quei due ragazzi avevo detto due cose semplici: che per partire con il lavoratorio avevo dovuto indebitarmi (54,5 milioni di lire nel 1976), e che andavo a confessare in carcere e nessuno mi aveva chiesto i soldi. Insomma, non sapevo che mi stavano chiedendo il pizzo». Ma «ho capito da subito che questi, i mafiosi, esagerano. Mi hanno chiesto i soldi davanti alle persone in carrozzina che stavano lavorando. Come si fa davanti a loro? Sono esagerati, vigliacchi». Ma i due giovani inviati «erano stati mandati, non erano figli di mafiosi. Uno dei due abitava lì vicino ed è venuto il papà a chiedere: “Cosa avete fatto a mio figlio”. Gliel’ho spiegato e mi si è inginocchiato davanti». Si impara cosa sia la mafia dopo 15 giorni. Per la politica magari serve più tempo, ma il risultato è lo stesso anche se gli incontri si moltiplicano: «È successo quattro o cinque volte. Noi ci occupavamo di artigianato, e un assessore all’artigianato mi aveva mandato un paio di funzionari. Mi dissero: “Don Giacomo, abbiamo una bella fiera a Firenze, portate i vostri, è tutto spesato come per gli altri artigiani”. E, in effetti, è stato così. Però, dopo pochi mesi c’erano le elezioni, e quei due sono tornati per portarmi i facsimile elettorali: secondo loro avrei dovuto fare pubblicità a quell’assessore perché “era buono”. Gli ho risposto che faccio il prete e mi hanno detto apertamente che non mi avrebbero più cercato. Con la politica ho avuto più esperienze perché i nomi cambiano e fanno queste cose qui. Come faccio a dirgli che il lavoro è libero se dico cosa si deve votare?».
È difficile rispondere alla domanda iniziale. Difficile dire se i bastoni fra le ruote li mettano più i mafiosi o i burocrati e la politica. Certo, viene in aiuto un altro aneddoto: «Nel 1992 abbiamo chiesto altri 26 posti per la riabilitazione dei disabili (abbiamo una lista d’attesa con più di 100 persone). Ho scoperto che per la clinica di Domenico Crea, l’ex assessore condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, le carte erano passate in sei mesi, le mie in 21 anni non erano ancora passate. E non sono ancora passate». «Naturalmente, per tornare alla frase di partenza, se la burocrazia e certa politica stessero sul pezzo, la Calabria avrebbe molti più posti di lavoro. E a volte non si capisce da dove viene lo sgambetto, se dai mafiosi o dalla politica. Nel caso delle nostre attività, il semplice ritardo dei pagamenti della Regione o dell’Asp mi fa dare 60-70 mila euro di interessi alle banche ogni anno, perché devo chiedere dei prestiti».
E la Chiesa cosa fa? «Ora siamo in una stagione differente rispetto al passato. Nei primi tempi la parola ‘ndrangheta nemmeno si utilizzava. Eravamo nel limbo. Ora siamo in un momento diverso. Sapevo bene che se mi fossi messo “sotto” un mafioso sarebbe stato l’inizio della fine, tant’è che sono finito a fare il testimone di giustizia contro la famiglia Torcasio». E veniamo a Lamezia: una terra difficile nella quale don Panizza ha piantato semi importanti: «A Lamezia Terme, senza la collaborazione dei vari poteri, di chi tace, di chi gli chiede favori, i clan non vanno da nessuna parte. Non riuscirebbero a far girare soldi». C’è poi, per stare ai chiaroscuri, il discorso delle collaborazioni istituzionali: «Ultimamente ci siamo incontrati a convegni con Arturo Bova (il presidente della commissione regionale antindrangheta. Mi ha detto: “Possiamo far girare qualche idea?”, e l’ha utilizzata per la legge. A Lamezia, in passato, abbiamo parlato con un prefetto che voleva circa 200 appartamenti confiscati che erano stati tutti dati al comune ed erano fermi. Mi ha proposto di prendere gli immobili più difficili così le altre roccaforti sarebbero cadute. Ci hanno proposto un’area nel cortile della famiglia Torcasio. Ho convocato tutti e ho spiegato la cosa: la gente che lavora da me mi ha detto “facciamo un regalo alla città”».

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