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Il prezzo di scrivere ciò che gli altri non scrivono

Raramente abbiamo infranto la prassi, da noi sempre seguita, di non dare notizia degli esiti delle cause intentate nei nostri confronti, anche quando abbiamo subito capito che esse in molti casi mi…

Pubblicato il: 23/03/2017 – 7:08
Il prezzo di scrivere ciò che gli altri non scrivono

Raramente abbiamo infranto la prassi, da noi sempre seguita, di non dare notizia degli esiti delle cause intentate nei nostri confronti, anche quando abbiamo subito capito che esse in molti casi miravano a intimidire più che a invocare giustizia. Stavolta non lo facciamo perché la sentenza in questione è veramente “storica”, come hanno inteso definirla in atti ufficiali e nei servizi a essa dedicati su giornalistitalia.it, i vertici nazionali della Federazione nazionale della stampa italiana, che ringraziamo per la solidarietà e la partecipazione che ci hanno sempre garantito. E qui, prima di proseguire, esprimo la mia inestinguibile gratitudine allo studio legale Battaglia e in particolare all’avvocato Antonino Battaglia. Non ci hanno solo assistiti con grande professionalità, ci hanno anche sorretti con una partecipazione ed un’amicizia che è andata oltre ogni nostro merito.
Giuseppe Scopelliti non ha mai presentato una querela, ha agito nei confronti miei e di Lucio Musolino con una citazione civile. Richiesta: un milione di euro quale risarcimento della nostra condotta diffamatoria nei suoi confronti. Incriminati erano cinque servizi e una intervista di Lucio Musolino a Michele Santoro. Quattro servizi a mia firma e in più l’omesso controllo, quale direttore responsabile, sui servizi contestati a Lucio Musolino.
Nei miei confronti Scopelliti si è spinto anche alla calunnia perché ha sostenuto, nel citarmi in giudizio, che alcuni miei servizi, dedicati ai suoi incontri milanesi con il boss Paolo Martino, avevano violato atti coperti dal segreto istruttorio. Insomma avrei commesso un reato contro la giustizia. In sentenza il presidente Patrizia Morabito, nell’esaminare con estremo zelo ogni contestazione mossaci da Scopelliti, ha chiarito anche questo: gli atti utilizzati erano tutti pubblici o comunque oggetto di discovery per essere contenuti in ordinanze o in dibattimenti. Altri scelsero di non pubblicarli, noi di Calabria Ora invece li pubblicammo, facendo esattamente il nostro dovere. E qui il giudice sottolinea come, semmai, sarebbe stato censurabile il contrario: «…un fatto così rilevante per la vita pubblica che la stampa verrebbe certamente meno al suo compito informativo se lo tacesse».
Insomma, quella intentata da Scopelliti contro di me, nella duplice veste di direttore di Calabria Ora e articolista, e contro Lucio Musolino per gli articoli a sua firma, è una “lite temeraria”. Giuridicamente significa che non aveva fondamento alcuno e per questo dovrà rimborsare le spese di giudizio quantificate, allo stato, in oltre 20mila euro. Ma è anche di più, configurandosi come una intimidazione verso i giornalisti reprobi, nel tentativo di bloccarne la libertà e condizionarne la professionalità. Si badi bene, in genere è prassi che nelle liti civili aventi a oggetto la diffamazione, oltre che i giornalisti vengano citati anche gli editori. Scopelliti non ha inteso estendere agli editori la sua richiesta di risarcimento milionario. Ne aveva ben ragione, visto che gli editori di Calabria Ora, all’indomani dell’elezione di Scopelliti a governatore mi posero davanti ad un scelta secca: o cambiare la linea editoriale e consentire una supervisione degli editori oppure andarmene.
Era il 19 di luglio del 2010. Non ebbi neanche un minuto di esitazione e presentai le mie dimissioni. Dissi chiaramente che non mi dimettevo per ragioni personali, anzi ai miei redattori prima e ai nostri lettori dopo, dedicai un editoriale che diceva con chiarezza: lasciavo la direzione di un giornale in costante crescita (avevamo superato il tetto delle undicimila copie vendute al giorno) perché non intendevo venire meno al patto stretto con i miei giornalisti e con i nostri lettori: pubblicare tutto, e soprattutto, «pubblicare quello che gli altri non pubblicano».
Fu la dolorosa fine di una bella e ricca, umanamente e professionalmente, esperienza. Altri otto redattori scelsero di dimettersi insieme a me. Li ricorderò sempre, qualsiasi cosa accada, con gratitudine e rispetto. Li avevo pregati di non farlo ma capivo le ragioni per cui lo facevano. Lucio Musolino e qualche altro tentarono di resistere ancora un poco, poi vennero costretti a lasciare anche loro.
Anche queste cose trovano spazio nella sentenza emessa oggi dal Tribunale civile di Reggio Calabria.
Una bella pagina per il giornalismo calabrese. Dio solo sa quanto ne abbiamo bisogno tutti noi che facciamo informazione in Calabria. Dovrebbe essere una vittoria collettiva, il riconoscimento che ancora questo Paese ha istituzioni capaci di aiutare e proteggere la stampa libera.
Peccato che anche in questa circostanza qualcuno ha deciso di agire in maniera scorretta. È una ferita che ci impedisce una completa soddisfazione. Peccato davvero.
Il riferimento è al servizio che a questa sentenza del Tribunale di Reggio Calabria ha dedicato Il Fatto quotidiano. Evidentemente chi ha scritto non ha avuto copia della sentenza. Abbiamo provveduto a inviargliene una. I nostri lettori che vorranno farlo potranno leggerla su questo sito, la riportiamo integralmente in formato pdf.
Chi leggesse solo il servizio pubblicato sul giornale di Marco Travaglio troverebbe una storia parziale e gravemente incompleta. Si parla solo dei servizi di Lucio Musolino e del suo proscioglimento. Nessun accenno al “coimputato” Paolo Pollichieni. Nessun riferimento al giornale che ha ospitato gli articoli di Lucio Musolino oggetto della citazione milionaria. Nessuna indicazione sull’epurazione di otto tra i migliori giornalisti calabresi. Nessun riferimento neppure a chi ha scelto gli avvocati per la difesa, approntato la documentazione, firmato gli incarichi.
Fanciullesco, ma non per questo perdonabile, modo di celebrare una sentenza che è un monumento giuridico alla libertà di stampa.
La gente ci osserva, ci studia, ci giudica. Sbaglia chi pensa che l’effimero presente sia anche il sicuro futuro.
Mio padre mi tramandava, a mo’ di aneddoto, la storia di un figlio ingrato che al vecchio padre serviva, schernendolo, il vitto in una vecchia scodella militare. Il tutto sotto lo sguardo attonito dei suoi nipotini. Invecchiando, rimasto solo e vedovo, un giorno il figlio ingrato vide ricomparire la vecchia scodella militare e i suoi figli la riempivano di brodaglia calda. Ammutolito li guardava. Gli gelò il sangue sentirli dire: «È la vecchia scodella militare. L’abbiamo messa da parte quando è morto il nonno, non dovrebbe dispiacerti se adesso la userai tu».

direttore@corrierecal.it

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