COSENZA «Chiru biaddru!». È un urlo belluino, genuino, inaspettato quello di un fan scatenato che squarcia il buio e quel minimo di aplomb rimasto all’interno del più antico teatro di tradizione calabrese per raggiungere l’idolo Dario Brunori, investendolo d’affetto. È una carezza semantica, una carineria vernacolare, un omaggio. È Cosenza.
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“A casa tutto bene” per davvero allora, proprio come il titolo del nuovo album e come ricorda il cantautore. Poiché il tour che sta candidando la Brunori Sas ad un impiego a tempo indeterminato nell’immaginario nazionalpopolare passa dalla città d’origine e lascia il segno. E pazienza, si confessa Dario davanti un teatro Rendano versione sold out, se amici e parenti gli consigliano di lamentarsi di qualcosa – «come tutti i calabresi che si rispettino» – perché altrimenti «u piccìanu».
L’esorcismo si compie però soltanto con gesti d’afflato e passionali, con gesti d’amore verso la propria musica e chi l’ascolta. Perché in fondo, il rapporto di Brunori col pubblico, è un rapporto ad alta tensione erotica. Li accompagna nel suo mondo, li blandisce, si schernisce, si racconta parlando della mamma seduta in galleria e del papà che non c’è più ma è come se ci fosse. Li intrattiene pure, alternando tre o quattro brani a veri e propri sketch “tipo la Vita in diretta” sogghigna il nostro: facendo il verso a Gigi D’Alessio, coinvolgendo un coro di bambini e giovanissimi che lo accompagna brevemente – «sembra un omaggio postumo al Mago Zurlì» -, invitando sul palco musicisti che lo hanno coadiuvato nella registrazione dell’album (il trio si chiama Takabum). Il sorriso che lascia il passo ai testi da far decantare in apnea.
L’intro è affidato ad un altro talento autoctono, Al The Coordinator, al secolo Aldo D’Orrico, ex Miss Fraulein. Dopodiché, a distanza di un’ora dal previsto orario di avvio, l’overdose brunoriana. Un’ora e mezza di amplesso con la sua gente. Le canzoni del nuovo album in fila indiana come La verità, L’uomo nero, Canzone contro la paura, Lamezia Milano, Don Abbondio e Il costume da torero che al Lingotto, ultimamente, era stata citata dall’ex premier Matteo Renzi nel suo intervento conclusivo alla convention del Lingotto.
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Si passa poi a quelle un po’ più datate come Arrivederci tristezza, Kurt Cobain, Fra milioni di stelle, Rosa ed altre ancora. Ma non ha importanza la scaletta, o meglio non importa al pubblico che avverte, sì, la crescita artistica del cantautore in evidente stato di grazia ed un sound più articolato e complesso con una formazione originaria che si allarga, ma che soprattutto vuole abbeverarsi ancora allo storytelling di un Brunori che vecchie volpi del circuito mediatico come il Trio Medusa hanno accostato, forse esagerando forse no, a Francesco De Gregori, e che nello stesso giorno vedeva campeggiare il suo nome in una pagina di reclame sul Corsera. Senza smarrire tuttavia l’appartenenza localistica. Come i cappellini con la scritta “San Fili” – piccolo centro alle porte di Cosenza: «Io ci abito, abbiamo un acqua meravigliosa» –, che si vendono persino ai banchetti e viene indossato da un componente della band.
Nel finale non poteva mancare, al pianoforte, il brano iconico Guardia ’82 con tanto di bicchierino poggiato sullo strumento: «È tè questo, alla pesca, altrimenti poi mamma si preoccupa e mi dice di non bere». Dopo sono solo applausi, standing ovation, la consapevolezza che Dariuzzo, «uno dei nostri» sussurrano i supporter brezi, forse, foraffascino, ce l’ha fatta.
Edoardo Trimboli
redazione@corrierecal.it
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