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La Calabria ha perso i propri “Patres”

RENDE È un rumore cadenzato e deciso quello che rompe il silenzio della sala del Dam – Dipartimento Autogestito Multimediale – Unical, a pochi passi dall’Ateneo cosentino. In scena, ieri sera, Save…

Pubblicato il: 01/04/2017 – 11:13
La Calabria ha perso i propri “Patres”

RENDE È un rumore cadenzato e deciso quello che rompe il silenzio della sala del Dam – Dipartimento Autogestito Multimediale – Unical, a pochi passi dall’Ateneo cosentino. In scena, ieri sera, Saverio Tavano ha riproposto il suo “Patres” di cui cura anche la regia, prodotto da Scenari Visibili di Lamezia Terme. Qualche colpo di bastone sulle tavole nel buio della scena. Il rumore si avvicina al pubblico, avanza avvolto dall’oscurità. Bisogna attendere pochi attimi per scorgere una sedia, al centro dell’ampio palco su cui questo bastone va a sbattere. Ne colpisce i piedi e un ragazzo, avanzando con le mani ne scopre le fattezze, per poi sedercisi su. È cieco: ce lo mostrano gli occhi chiusi, ma ancor più le mani che scrutano l’aria cercandone le forme. È legato alla caviglia sinistra da una grossa corda appesa al soffito. In mano, una barchetta di plastica rossa e blu di cui studia ogni minimo dettaglio. Alle sue spalle un lungo filo con panni stesi: lenzuola, magliette, pantoloni. Con dei versi, chiama qualcuno. «U senti un mari. Varda comu è bellu u mari. Mentu i mani avanti e u viu». Rumore delle onde, quelle del Tirreno, il cui sale sbiadisce il colore delle barche e «feta», puzza. Questo figlio cieco (Gianluca Vetromilo), aspetta un padre (Dario Natale), uscito a comprare i sigari molto tempo prima, perché vuole smettere di fumare: «Ma cantu nci voli mi si cattanu i sigari? Deci anni?». Lo aspetta, sulle coste lametine, da cui sente volare gli aerei, sempre alla stessa ora per tre volte al giorno dall’«Aeroporto internazionale» calabrese. È un’attesa omerica quella del figlio che aspetta, col suo fedele Argo, che il padre torni. È un uomo burbero e confuso quello che entra in scena scostando i panni stesi. Fuma e coinvolge il figlio in questa danza a comando «sata ora, sata ancora». Raccolgono i panni lanciandoli in una cesta. Ora la scena è libera: solo due corde e una sedia. La rudezza di quest’uomo che cerca di istruire il figlio è contrastata dalla dolcezza di quest’ultimo che vuole che il padre gli racconti delle storie. Nelle lotte corporee, tanto più grande è il bisogno di contatto del giovane “Telemaco”, quanto più distante è la presenza di questo padre “Ulisse”. Una bambola gonfiabile è strattonata con odio. La maternità si disfa attraversando la scena dai primi ricordi del figlio. È un vuoto, quello paterno, fatto di silenzi, domande scomode eluse. In itinere, le battute svelano il fil rouge che attraversa in profondità la drammaturgia.
Il doppio filo che occupa lo spazio scenico si muove su due direzioni: è cordone ombelicale che lega il figlio al padre con cinque nodi e lo lascia “appeso”, in attesa; è un doppio “orizzonte”: la vita del protagonista alle spalle e il potere immaginifico di una cecità davanti a lui, che non lo priva della coscienza di sé e della propria esistenza. In questo racconto Saverio Tavano parla del mare come una duplice eredità: quella ancestrale di chi è pescatore per diritto di nascita («ieu sugnu pescaturi e me patri era pescaturi»), ma anche quella che si lascia ai figli, quel «Ciò che hai ereditato dai padri riconquistalo, se vuoi possederlo davvero» di cui parla Goethe. Con piccoli elementi narrativi, l’autore ci mostra un’altra possibile soluzione al nostro essere su quelle spiaggie. «Ci sunnu morti chi morunu pirchì voli Diu, e morti chi morunu pirchì vonnu i cristiani», ricorda il padre. Perché quando «è successo quel che è successo» alla madre «nci squagghiau u sangu». Ritorna quel fil rouge e la storia si chiude. Veniamo portati indietro nel tempo, in quel periodo in cui le navi a perdere venivano fatte affondare lungo le coste del Tirreno, i cui rifiuti tossici insabbiati nella terra, come è successo con la motonave Jolly Rosso a largo di Amantea nel dicembre del ’90. La cecità del protagonista e l’incidenza in aumento dei decessi da tumore sono la conseguenza degli “errori dei padri” che ricadono sui figli. Nelle storie che questo uomo racconta c’è anche questo: la fuga a Santo Domingo dallo zio Ninì. Rimane solo chi aspetta sulle coste di quel mare «che va rispettatu, sinno diventa tradituru»; è solo chi aspetta sulle rive di quel mare in cui la gente vende le case per la puzza delle navi.
«Viviamo in un periodo in cui c’è un’assenza dei padri – spiega il regista in un incontro con il pubblico e gli attori dopo lo spettacolo -. Non ci sono più i padri politici, spirituali; sono un po’ assenti. Sono evaporati alle spalle dei figli. Noi veniamo da questa mancanza del patriarcato e siamo come dei Godot: aspettiamo che qualcosa arrivi».
Esce di scena questo padre, ma non prima di avere cullato sulla sedia il figlio a cui ha tentato di ridare la vista con due pezzi di carta adesiva appoggiati alle palpebre. Ma Telemaco resterà in attesa («e s’aimu spittari deci anni, spettamu», dirà al suo fedele Argo), viaggiando con il mappamondo in mano attraverso paesi e luoghi mai visti, fino ad approdare, di nuovo, in Calabria perché «gira e rigira, sempri ca si ritorna».

Miriam Guinea
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