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La Dda indaga sul suicidio della nipote del boss

REGGIO CALABRIA Gli inquirenti non hanno dubbi, quello di Maria Rita Lo Giudice è stato un suicidio. Per questo la sua salma è stata dissequestrata e per lei sono stati già fissati i funerali….

Pubblicato il: 03/04/2017 – 20:37
La Dda indaga sul suicidio della nipote del boss

REGGIO CALABRIA Gli inquirenti non hanno dubbi, quello di Maria Rita Lo Giudice è stato un suicidio. Per questo la sua salma è stata dissequestrata e per lei sono stati già fissati i funerali. La procura però ha deciso di esplorare i motivi che hanno indotto la venticinquenne a lanciarsi dal balcone della sua casa domenica mattina ancor prima delle sette, senza lasciare alcun biglietto. In queste ore, i carabinieri stanno esaminando le testimonianze dei familiari, ma anche del fidanzato e degli amici della ragazza per comprendere cosa abbia indotto Maria Rita a suicidarsi. Brillante studentessa di Economia, dopo la laurea conseguita a pieni voti nell’ottobre scorso, la ragazza aveva deciso di proseguire il proprio percorso universitario a Reggio Calabria, e circa un mese fa con docenti e colleghi di facoltà era partita per Francoforte e a Bruxelles, per un viaggio di istruzione alla sede della Banca Centrale e agli uffici della Commissione Europea. Un viaggio immortalato in decine di scatti, pubblicati su facebook dalla ragazza, evidentemente fiera di un percorso che la stava portando lontano da Reggio Calabria, dove il suo cognome è sempre stato sinonimo di ‘ndrangheta. Figlia di Giovanni, da tempo in carcere, nipote del boss, adesso pentito Nino “Il Nano”, e della mente imprenditoriale del clan, Luciano, la ragazza – secondo alcune indiscrezioni – sentiva il peso del cognome che portava addosso e l’ostracismo sociale che a Reggio Calabria ne deriva. Un’ombra pesante che non l’aveva indotta a rinnegare la famiglia – viveva ancora con la madre –  ma secondo alcuni spesso la faceva sentire un’emarginata. «La ragazza non ha mai rinnegato il padre, anzi era la prima ad interessarsi delle sue vicende giudiziarie – dice l’avvocato Russo, che assiste da tempo la famiglia – Aspettava il ritorno del genitore con ansia e si sentiva diversa dai parenti. A chiunque ripeteva sempre “noi siamo un’altra cosa, non abbiamo nulla a che fare con loro”, ma non è escluso che qualcuno le abbia fatto pesare il cognome che portava». Una sorta di «bullismo cognomico» a detta del legale, secondo il quale la ragazza potrebbe aver patito pregiudizi e isolamento nella facoltà che da poco aveva iniziato a frequentare. Ipotesi che inquirenti e investigatori, coordinati dal procuratore capo della Dda di Reggio Calabria, Federico Cafiero de Raho, e dal pm Romano Gallo, adesso stanno esaminando con attenzione, per provare a capire cosa abbia indotto la venticinquenne a lanciarsi nel vuoto. 

Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it

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