REGGIO CALABRIA Sono entrati in camera di consiglio i giudici chiamati a valutare le posizioni degli imputati del processo d’appello Meta, scaturito dall’inchiesta che ha fotografato le nuove dinamiche dei clan reggini, arrivando a individuare la nuova struttura dell’associazione, a partire dal direttorio che la governa. L’attesa per la sentenza sembra però destinata ad essere lunga. La decisione della Corte presieduta dal giudice Giacobelli – filtra dalle stanze di piazza Castello – potrebbe non arrivare prima di sabato o domenica. Un tempo consono – si commenta fra i legali – ad un’attenta valutazione degli atti di un procedimento complesso che ha rivoluzionato la concezione della ‘ndrangheta.
LA ‘NDRANGHETA NUOVA Un mattoncino necessario – hanno spiegato più volte i magistrati – che ha permesso in seguito di procedere contro la cosiddetta “struttura invisibile”, il cuore strategico e programmatico della ‘ndrangheta, oggi al centro di Gotha, il maxi-procedimento che di Meta è la naturale prosecuzione e oggi minaccia di squarciare il velo su molta borghesia, reggina e non solo, che ha prosperato in combutta con i clan. Un salto di qualità nel contrasto ai clan, reso possibile proprio dall’individuazione del direttorio. È proprio questo organismo – ha affermato la sentenza Meta – ad assicurare il simbiotico rapporto fra le due anime della ‘ndrangheta, quella visibile e quella invisibile, tanto diverse, quanto ugualmente funzionali all’efficacia delle strategie criminali dell’intera organizzazione.
L’INCHIESTA Un meccanismo emerso in modo cristallino nel procedimento Meta, «un’inchiesta – ha affermato nel corso della propria requisitoria il sostituto procuratore della Dda Giuseppe Lombardo, che ha coordinato le indagini, ha sostenuto l’accusa in primo grado e oggi è in appello – che ha spiegato come la ‘ndrangheta si evolva, e come sia riuscita a evolversi, capace di cambiare le regole adeguandosi ai tempi in cui opera. Esibendo sempre una forza micidiale». Dopo una guerra sanguinosa che ha lasciato sul terreno oltre 700 morti ammazzati, le ‘ndrine si sono date nuova forma ed «è nata la compattezza di oggi con le cosche che ragionano all’unisono e che operano una accanto all’altra», ha sottolineato il pm. Un sistema garantito dal direttorio di clan che governa la ‘ndrangheta visibile, grazie a «un processo evolutivo di accentramento del potere decisionale nelle mani di pochi grandi capi – spiegava il Collegio in sede di motivazione della sentenza di primo grado – così da poter determinare “a monte” le decisioni vincolanti, irradiandole a pioggia verso ì livelli inferiori di siffatta struttura gerarchica, da un lato, e sì da poter relazionarsi con ambienti più elevati di tipo politico istituzionale, dall’altro lato». Una superassociazione, che in Giuseppe De Stefano – ha messo in chiaro il pm Lombardo – «ha il suo amministratore delegato che opera da indiscusso leader, perché gode della fiducia piena degli altri soci di riferimento».
LE CONDANNE DEL PRIMO GRADO Per lui, come per tutti gli altri imputati, fatta eccezione per il boss Cosimo Alvaro, gli imprenditori Nino Crisalli e Carmelo Barbieri, per i quali è stato chiesto che cadano alcune aggravanti, la pubblica accusa ha chiesto la conferma di tutte le condanne. In primo grado, il Collegio aveva distribuito oltre trecento anni di carcere fra tutti gli imputati, per la maggior parte dei quali è stata chiesta la conferma della pena. All’epoca, il capocrimine De Stefano è stato condannato a 27 anni, mentre a una pena di 20 anni di reclusione sono stati condannati il superboss Pasquale Condello, Giovanni Tegano e Pasquale Libri, il “custode delle regole”. Una condanna pesantissima, pari a 23 anni di reclusione, è arrivata anche per Domenico Condello, nipote del superboss e all’epoca riconosciuto dal Tribunale come elemento di collegamento fra il direttorio e il resto dell’organizzazione. Ventitré anni era stata la pena decisa per Pasquale Bertuca, mentre era di 21 anni la condanna inflitta a Antonino Imerti e di 18 anni e 4 mesi quella disposta per Giovanni Rugolino. Per il boss Cosimo Alvaro, i giudici hanno invece deciso una condanna a 17 anni 9 mesi e dieci giorni di reclusione più 1500 euro di multa, mentre è stata di 16 anni la pena inflitta a Domenico Passalacqua e Francesco Creazzo. Sono invece 13 gli anni di reclusione decisi per Natale Buda, mentre dovrà scontare 10 anni di carcere Stefano Vitale. Una condanna pesante è arrivata anche per l’imprenditore Nino Crisalli, condannato dai giudici a 7 anni di carcere perché pur di riscattare il proprio patrimonio all’asta fallimentare, durante la quale stava per essere liquidato, ha deciso di chiedere “garanzie”, legittimando «l’autorità dei vertici territoriali della ‘ndrangheta e contribuendo dunque al rafforzamento dell’organizzazione per l’ex sindaco di San Procopio, Rocco Palermo, punito con 4 anni e sei mesi di carcere, Antonio Giustra infine, è stato condannato a 3 anni e sei mesi, mentre per Carmelo Barbieri, è stata fissata in tre anni.
Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it
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