Ormai da tre anni il nuovo governatore della Calabria, così come aveva fatto il suo predecessore, non fa che ripetere l’importanza di Gioia Tauro, del suo porto e del mai decollato bacino industriale ad esso collegato.
Va dato atto a Mario Oliverio di non essere, in questo caso, l’unica voce narrante: con lui anche il ministro Delrio, l’ex premier Renzi, i vertici regionali e nazionali del Pd hanno sempre garantito attenzione, cura e impegno per Gioia Tauro, badando però a non far seguire tali pronunciamenti da fatti concreti.
Per ben due volte, in questi tre anni, Mario Oliverio, anche qui seguendo le tracce di Scopelliti, è stato in pellegrinaggio a Ginevra per discutere del futuro di Gioia Tauro con la famiglia Aponte, armatori leader nel settore del transhipment. Cosa si siano detti non lo abbiamo mai saputo, sul punto portavoce presidenziale, ufficio stampa allargato, siti istituzionali e pagina Facebook “per la Calabria” osservano un silenzio certosino.
Tacciono i protagonisti ma parlano i fatti: il porto resta pubblico nelle spese e privato nei profitti. Posti di lavoro nuovi neanche uno, crescono invece i licenziamenti ed il ricorso agli ammortizzatori sociali. Il management, dopo tre turni di commissariamento, resta precario ed anche dopo il varo del nuovo piano nazionale che accorpa Gioia Tauro a Messina la sede resta vacante. Ne consegue che, in mancanza di un presidente dell’autorità portuale, qualsivoglia programmazione è impossibile.
Tutto questo rende legittimo il sospetto che Gioia Tauro serve così come è: senza un passato e senza un futuro. Un porto che sulla carta appartiene allo Stato ma nei fatti serve due committenti privati: la famiglia Aponte, che si occupa solo di spostare container da un capo all’altro del mondo. E la ’ndrangheta, che si occupa solo di spostare tonnellate di cocaina da un capo all’altro del mondo.
In visita al capezzale di una infrastruttura che si ostina a vivere anche senza alcun accanimento terapeutico, scendono in tanti. Guardano e non si capacitano di come sia possibile che una risorsa simile non solo non produca sviluppo ma addirittura continui ad ammassare deficit e costi scaricati sull’erario.
Da ultimo, al capezzale di questo grande porto che di Gioia porta il nome ma non ne ha mai regalato una, è giunto Michele Emiliano. Il suo attuale lavoro è uguale a quello di Oliverio, ma a differenza di quest’ultimo la Puglia governata da Emiliano naviga in acque decisamente migliori. Anche Emiliano, come Oliverio, conduce una battaglia meridionalista all’interno di un Pd fin qui più impegnato a salvare banche che non a riequilibrare i rapporti tra Mezzogiorno e resto del Paese. Solo che Emiliano ha scelto la strada del protagonismo operoso e si è candidato come alternativa a Renzi. Oliverio, invece, preferisce giocare sul sicuro e dopo avere lasciato Bersani è corso in aiuto del vincitore.
Michele Emiliano, nella sua visita a Gioia Tauro, figura come il bimbo che nella sua purezza, non esitò a dire che il re era nudo. «Dal porto di Gioia Tauro passa un pezzo fondamentale per lo sviluppo del Sud. Ho seguito, con riserbo, la crisi di questi giorni e penso sia giusto ridurre gli esuberi. Non mi sembra sia stato chiarito tutto, però: quale è il Piano industriale?».
Ricordate il film, superato ampiamente dai fatti, su Cetto Laqualunque? Quando Cetto, dal suo chiosco abusivo che affacciava sul mare inquinato si sentì chiedere il rilascio della fattura? Si paralizzarono tutti. La fattura? Roba da restare impietriti.
Emiliano pietrifica tutti chiedendo del “Piano industriale”. Un “Piano industriale”? Dove? In Calabria? Al porto di Gioia Tauro? Ma siamo impazziti. Michele Emiliano chiede di sapere “Quale è il piano industriale”. Così macchiandosi di impertinenza e ingenuità, errori imperdonabili in politica.E che ci mettiamo a fare piani industriali adesso?
Non pago dell’insolenza dimostrata, ecco il candidato alla segreteria nazionale del Pd rincarare la dose: «Altre domande – dice ancora Emiliano – sul porto di Gioia Tauro: quante risorse vogliono investire i gruppi privati e quante lo Stato? Perché il governo da anni non sceglie il manager dell’autorità portuale gioiese? Bisogna fare subito una scelta di livello che assicuri autorevolezza alla governance e un futuro al territorio».
Hai capito il buon Michele, giusto a Gioia Tauro sceglie di onorare il suo cognome. L’emiliano lo faccia in Emilia e non nella patria del Codice Pignanelli e del Lodo Oliverio. I privati in Calabria dovrebbero investire? Ma quando mai, qui i privati hanno sempre preso investimenti, perché mai dovremmo invertire il rapporto. E chiude col botto: «Il nostro partito – conclude il governatore della Puglia – deve essere meridionalista a fatti e non solo a parole». Ma quando mai, qui le carriere si costruiscono facendo esattamente il contrario. Per cui, caro Emiliano, segui il consiglio di Cetto: «Emilià, fatti i c… tuoi».
direttore@corrierecal.it
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