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Le inutili potenzialità di una terra abbandonata

Da anni e anni, forse dal dopoguerra e dal piano Marshall, abbiamo sentito pronunziare la parola “potenzialità”. Prima, negli anni 50, era l’Italia ad essere un Paese dalle infinite potenzialità fo…

Pubblicato il: 01/05/2017 – 9:44

Da anni e anni, forse dal dopoguerra e dal piano Marshall, abbiamo sentito pronunziare la parola “potenzialità”. Prima, negli anni 50, era l’Italia ad essere un Paese dalle infinite potenzialità forse perché usciva da una guerra perduta e bisognava consolare i cittadini italiani che, così, potevano sperare in futuro migliore. Poi negli anni ’80, appena le Regioni avevano cominciato ad ingranare la marcia, dopo il dovuto rodaggio (ma è stata mai ingranata?) si è sempre sostenuto che, per esempio, la Calabria era una regione dalle infinite potenzialità. Potenzialità in campo turistico, essenzialmente, ortofrutticolo, olivicolo, ma anche industriale. Tant’è che si era cominciato a fare delle scelte di politica economica, che tenessero conto a, quel punto, di tutti i fattori dell’economia, turismo, agricoltura ed anche industria. Un inizio che non ha mai avuto una fine. Neanche dopo “i fatti di Reggio” che diedero il capoluogo a Catanzaro, l’industria a Reggio, la cultura e l’Università a Cosenza. È decollato qualcosa, sul piano economico? No, o quasi. A parte gli uffici che diedero “vita” a Catanzaro, conosciuta solo perché era sede di Corte d’Appello – l’unica in tutta la Regione -, a Reggio si è rimasti col cerino in mano, mentre ad Arcavacata di Rende, grazie all’illuminato professor Beniamino Andreatta, che il ministro Misasi, convinse ad accettare l’incarico di Rettore, l’Università prese piede. Da Messina, dove il 70-80 per cento degli studenti calabresi, ci eravamo laureati, una grande percentuale si trasferì, soprattutto per i nuovi diplomati, nella frazione di Rende. Reggio, a giudicare  40 anni dopo rimase a bocca asciutta o quasi. Né turismo, né agricoltura. E soprattutto né industria, pur pomposamente promessa. A ridosso di Reggio, tra San Ferdinando e Nicotera, un Club Mediterranèe, costruito con i soldi della Insud, è fallito ed è abbandonato, preda dei vandali. Il turismo, langue. Eppure non mancano centri di attrazione, l’archeologia ed i beni culturali si riscoprono di tanto in tanto, in occasione di qualche gita, ma non sono inseriti nei circuiti nazionali ed internazionali. L’agricoltura? Aspetta e spera. Stiamo per dichiarare fallimento, eppure, in quella provincia, si producono clementine ed arance di buona qualità, senza che la Regione o il governo si pongano il problema della coltivazione e della vendita. Ah, ecco c’è l’industria!!! Dove, a Gioia Tauro, forse? Ma non scherziamo, dopo tutto quel che è costato il porto “regalato” oggi ai tedeschi, l’ex infrastruttura più importante del Mediterraneo è con l’acqua alla gola e gli operai vengono licenziati o trattati coi pannicelli caldi. Senza andare oltre. Eppure chissà quante migliaia di giovani avrebbero dovuto trovare lavoro! E le altre industrie a Sud di Reggio? Non ci sono tracce. E di quelle collegate al porto di Gioia Tauro? Non è rimasta nemmeno l’ombra, anzi sono rimasti i capannoni abbandonati costruiti dagli industriali prenditori del Nord, che dopo essersi accaparrati i soldi della 488 son fuggiti con la cassa lasciando con una mano davanti e l’altra dietro, come l’aretino Pietro, i giovani che pure erano stati formalmente assunti. E pensare che un industrialotto piemontese – poi finito male anche dal punto di vista giudiziario – avrebbe voluto costruire in quel che era ed è il deserto della Piana di Gioia Tauro, una fabbrica di automobili. Avrebbe voluto far rivivere il mito della Isotta Fraschini! Ci sarebbe da ridere se non fosse giusto piangere! Quando lo intervistai per il Tg1 e il Tg regionale, questo gradasso che ti guardava dall’alto in basso, mi aveva commiserato perché non avevo creduto, dicendoglielo nell’intervista, che non era possibile, senza infrastrutture di contorno, pensare ad una fabbrica di automobili. Vedrà, vedrà, mi congedò. Ed infatti abbiamo visto. A parte un prototipo dell’Isotta, il nulla del nulla, se non qualche finta apertura di un’azienda,che aveva preso il posto dell’altra –la Oto Breda-mai decollata, e chiusa in un batter di ciglia. Ci sono stati gli operai, qualcuno aveva lavorato per un’azienda del Nord, gli altri stavano a spasso a gironzolare dentro il capannone. Non si è vista né Isotta nè Fraschini. Solo le frasche portate dal vento a ridosso dell’ingresso. Ma poi l deserto. Come il deserto, c’è tuttora, a parte una fabbrichetta di occhiali, un’azienda che costruisce “materiale funerario” e qualcosa altro. Se c’è. Vedi, però, se e quando passi, capannoni abbandonati e derubati di ogni cosa. Per il resto le capre al pascolo, e se ti sposti di qualche km, il ghetto indecente degli immigrati. Di cui tutti sanno tutto e tutti fanno finta di non sapere, visti i risultati. 
Di arance e mandarini, inutile ripetersi, di stabilimenti balneari e infrastrutture  – siamo sempre in territorio di San Ferdinando( per tutto, soprattutto per quel ce non c’è – illusione a parte). E al danno anche la beffa,  la Cassa di risparmio ha levato le ancore, non c’è più una stazione di servizio per carburanti, non ci sono negozi, se non quelli per sopravvivere. Per banca e benzina, si deve andar fuori Comune! Però? Però siamo la Regione dalle potenzialità inespresse. Ad ogni convegno, di tutte le forze politiche, non si sente altro: la regione dalla mille potenzialità, già dal 1980. Ed oggi, provate ad ascoltare un convegnista, un relatore. «La Calabria ha potenzialità di primo piano, in campo turistico, agricolo, dei beni culturali». Potenzialità, sempre potenzialità! Ma lo sanno che significa potenzialità. «È il momento che precede la realizzazione», secondo il Devoto Oli. La prossima volta che sento dire potenzialità in un convegno lancio un grido di ribellione e di contestazione, non potendo, per professionalità ed educazione, fare di più, anche se i “poveri cristi” dovrebbero quanto meno fischiare. La potenzialità finisce, se si vuole capire. E se non lo si vuole, bisogna farlo capire. Che nessuno lo dica più, ammenocchè  non porti un fatto concreto non una ennesima parola al vento.

*giornalista

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