REGGIO CALABRIA «Ormai niente, tiriamo, tiriamo avanti così, poi dovrà succedere qualcosa? Speriamo che non succeda negativo, che non gli lasciamo la pelle qualcuno di noi, di noi, mah!». Salvatore Aiello è il direttore tecnico di Fata Morgana, azienda «spolpata» dal clan De Stefano. E dalla politica. Aiello ha un ruolo che ve ben al di là della sua qualifica. È un manager tuttofare: cura gli affari della parte privata, tratta con la politica, ha rapporti con la ‘ndrangheta. Le sue parole – gli atti erano in parte già depositati nel procedimento “Mammasantissima” – sono una camera con vista sul sistema che, a Reggio Calabria, ha utilizzato per anni le società miste. Un cocktail di mafia e politica, cattiva gestione e assunzioni a comando. Unico sbocco possibile: il fallimento economico e sociale. Il manager diventato collaboratore di giustizia dà sponda a tutte le possibili pressioni. Fino a esplodere. I pm della Dda di Reggio Calabria spiegano che nella frase del direttore tecnico c’è la sua resa. È la sintesi del «clima oppressivo in cui era costretto a gestire l’impresa, costretto – tra le bramosie elettorali della politica e le intimidazioni della ’ndrangheta – a difficili equilibrismi». Fino a un certo punto. Perché quando le minacce dei De Stefano si fanno più vivide, recede «da ogni tentativo di salvaguardare anche gli interessi economici dell’azienda». «La bulimia criminale – è l’analisi dei pm – prende definitivamente il sopravvento e Aiello interrompe la sua ostinata e pervicace difesa degli interessi economici dell’impresa, lasciandola definitivamente spolpare dagli assoggettanti interessi della ’ndrangheta che la conducono, ben presto, al fallimento».
Una classe politica vorace e una ‘ndrangheta affamata di tangenti non lasciano alcuna speranza. Il pentito racconta le minacce di Paolo Caponera («se hai sbagliato ti taglio il collo») che lo convincono a mollare. Anche davanti al pm Stefano Musolino, Aiello non si trattiene: «Credo che da allora, tutti si fanno i cazzi loro, io che faccio il paladino di Francia io? Ho mandato a fare in culo tutti quanti e penso che è stato l’inizio della fine di quella società».
Il requiem per Fata Morgana coincide con la scelta del direttore tecnico di fare un passo indietro: «Non me ne è interessato più nulla, quindi se poi hanno fatto tutte le loro cose, non mi è interessato più niente di nulla, infatti forse sarà durata un anno, un anno e mezzo, si mi ricordo disse “se sei stato tu ti taglio il collo”, il cugino mi ha detto che mi fa diventare come quello della… che neanche il medico legale…».
La prospettiva non rallegra Aiello, che per anni media con politici non meno bramosi degli ‘ndranghetisti. Vai a spiegare ad Antonio Caridi (il parlamentare arrestato dopo il via libera del Senato il 4 agosto 2016, che all’epoca era assessore comunale a Reggio Calabria) che un collega (Gesuele Vilasi, esponente di Forza Italia e consigliere comunale ai tempi delle intercettazioni) gli ha soffiato un posto. Al manager tocca pure questo “lavoro”: «L’ha mandato Vilasi… io di politica non è che ne capisco un “cazzo”, però insomma non mi piacciono tutte queste cose politici, di personaggi, cose, non mi piace … se no ci vediamo domani mattina… io ti dico le cose come sono, poi siccome il politico sei tu, ti fai i tuoi ragionamenti…». E stando alle sue dichiarazioni nell’interrogatorio del 30 ottobre 2014, è un bene che sia stato lui a occuparsi di tutto. Anche dei rapporti con i clan. Perché quando Paolo Rosario De Stefano «mi disse che voleva il 7% del valore di un appalto», Fata Morgana si trovò davanti a un bivio. Aiello non avrebbe avuto i poteri per negoziare con la cosca, ma è stato meglio che lo abbia fatto lui, perché «il proprietario di Fata Morgana sono anche i Comuni. Quindi, se avessimo lasciato fare ai sindaci, si prendevano il 70%». È dura governare un’azienda stretti tra gli appetiti di mafia e politica. E a volte è persino difficile capire la differenza.
Pablo Petrasso
p.petrasso@corrierecal.it
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