Vale la pena di riscrivere la normativa di (quasi) tutte le Regioni in tema di fusioni. È quanto emerge da una analisi delle fusioni dei Comuni perfezionate post legge 56/2014, la cosiddetta Delrio. Quelle fusioni conclusesi nulla querelas, perché promosse nei relativi referendum dalle collettività chiamate al voto, ovvero con la bocciatura delle Regioni o generando manifesti dissensi di tanti cittadini, divenuti forzatamente residenti del nuovo ente locale in forza di annessioni perfezionate dalle Regioni nonostante i voti contrari conseguiti nei loro Comuni di originaria residenza.
Il fascino delle agevolazioni contributive Un tale problema si è amplificato a seguito della «attrazione fatale» – che ha incrementato di tanto il ricorso alle fusioni – dei contributi straordinari previsti dallo Stato, riferibili ai trasferimenti goduti dai Comuni interessati nel 2010, quando i finanziamenti erano molto più consistenti di quanto lo siano oggi, basato su quel fondo di solidarietà che ne ha combinato di tutti i colori (si veda Quotidiano EELL&PA del 10 marzo 2017). Con il passaggio dal 20% al 40%, avvenuto nel 2016, si sono infatti moltiplicate le iniziative in tale senso, incrementate ulteriormente dall’elevazione al 50% a cura del comma 447 della legge di bilancio per il 2017. Un benefit di scopo sul quale sarà pressoché ininfluente l’aumento contributivo disposto dalla mini-manovra (D.L. 50/2017) per gli enti territoriali in corso di conversione che, all’art. 21, ha previsto un contributo di due milioni, per il biennio 2017-2018, da dividere tra tutte le fusioni che si perfezioneranno nel periodo.
Ad evidenziare il diffuso deficit legislativo regionale ha contribuito, non poco, la stessa legge 56/2014 che – da una parte – ha fatto bene a sancire, in termini di principi fondamentali, una disciplina accettabile e – dall’altra – ha prodotto non poche confusioni, a valle, nell’attuazione delle discipline regionali, necessariamente dovute per garantire certezze procedurali e di risultato alla realizzazione delle politiche aggregative. Un gap da colmare, segnatamente evidenziatosi a seguito della mancata approvazione della revisione della Costituzione, bocciata dal referendum del 4 dicembre scorso, che riassumeva nella competenza esclusiva dello Stato, per l’appunto, le disposizioni di principio sulle forme associative dei Comuni, così come previsto nell’ipotesi di riscrittura dell’art. 117, comma 2, lettera p), finalizzata a fornire l’occasione di rivedere organicamente tutta la materia.
Nonostante tutto questo, si contano quotidianamente ricorsi alle fusioni, spesso incentivati dall’idea di tanti amministratori locali di utilizzare i contributi milionari per aggiustare ciò che gli stessi hanno rovinato in tanti anni di malagestio. Una brutta abitudine che diventa un pericolo grave in presenza di leggi regionali non affatto esaustive sul tema.
L’esigenza di riscrivere le leggi Alla luce di tutto ciò, è auspicabile l’immediata riscrittura delle discipline regionali, necessariamente coordinata con la Costituzione e con le leggi attuative che fissano adempimenti a carico del sistema autonomistico, primo fra tutti quello di obbligare i Comuni a concorrere, comunque, all’equilibrio del bilancio consolidato dello Stato. Un risultato, questo, che per essere conseguito ha necessità che gli enti territoriali, a cominciare dalle Regioni, prendano coscienza, altresì, delle novità introdotte dalla riforma cosiddetta Madia e dallo specifico contenuto dei suoi decreti delegati, prioritariamente di quelli che ridisciplinano le società partecipate. Non trascurando, ovviamente, quanto la medesima legge delega non è riuscita a sollecitare, per decadenza del termine previsto ad hoc, in relazione ai servizi pubblici locali di interesse generale che dovranno, di qui a non molto, rintracciare una regolazione in un apposito testo unico ampiamente condiviso (Corte Cost. 251/2016 docet).
Un tale adempimento delle Regioni non è più rinviabile, ancorché non facilmente assolvibile. Lo è a tal punto da fare registrare esperienze elaborative di leggi, francamente inimmaginabili. È quanto successo nella Calabria dei record negativi in termini di mortalità delle leggi ad opera della Consulta. Si è, infatti, verificato che è stata ivi perfezionata – e si rischia di fare altrettanto con le fusioni in itinere – una fusione di Comuni (denominata Casali del Manco) in assoluta assenza del relativo studio di fattibilità ovvero di relazione tecnica di accompagno che dir si voglia che ne giustificasse l’impulso dei comuni. Non solo. Si è provveduto ad annettere al nuovo ente, un Comune i cui cittadini si erano decisamente pronunciati in senso contrario. E ciò è accaduto dopo due integrazioni alla pregressa normativa del 1983 riguardante il referendum consultivo, delle quali la seconda (del dicembre 2016) approvata per correggere quella precedente (del marzo 2016) che aveva supposto di fare valere la maggioranza dei votanti dell’intero bacino. Come dire, sul piano della regola generale: in cinque Comuni interessati all’evento aggregativo, di cui il primo di 1.000 abitanti e gli altri quattro di 200 cadauno, per generare la fusione sarebbe stata sufficiente – nell’assenza di quorum – la manifestazione dei voti favorevoli nel primo, fossero stati anche espressi sei in quest’ultimo e uno cadauno negli altri.
Quorum si, quorum no Al riguardo, non sarebbe il caso di fissare il quorum, ovunque, da calcolarsi sulla maggioranza degli aventi diritto (così com’è in Basilicata, Campania, Liguria, Lombardia, Molise, Sicilia, Umbria e Veneto)? La scelta sociale sulla fusione del proprio Comune – con la conseguenza di generarne uno nuovo, con tutti i conseguenti radicali cambiamenti (di bilancio, modalità dell’offerta amministrativa, programmazione territoriale, organizzazione, prelievo fiscale e tariffario, eccetera) – lo meriterebbe di certo! Vi è infatti il rischio di creare, in presenza di bilanci insostenibili dei Comuni interessati, un nuovo ente affetto da gravi vizi finanziari ed economico-patrimoniali, cui dovere rimediare con i contributi statali di scopo, in quanto tali da destinare invece al suo rilancio.
Le idee legislative in circolazione e le cautele Quanto rilevato dimostra che, a fronte della corretta esigenza nazionale di ridurre i Comuni ad una cifra che sia almeno la metà di quelli attuali (7.998), l’esistenza di un sistema legislativo regionale segnatamente inadeguato, tanto da fare registrare il ricorso, da parte delle solite Regioni più attente alla elaborazione del proprio sistema legislativo, a (ri)mettere le mani sul proprio specifico ordinamento.
Una esigenza avvertita da diverse Regioni, anche in relazione alle modalità di pervenire alla più corretta ed esaustiva manifestazione della volontà popolare attraverso una rimodulazione del referendum consultivo assistito da quesiti più allargati e differenziati secondo le poste in gioco, del tipo le denominazioni alternative del nuovo Comune e le previsioni del consenso su esiti referendari diversificati.
A ben vedere, tra la generalizzata rincorsa agli incentivi, l’assenza di corretti provvedimenti legislativi che regolino la programmazione del nuovo ente, al lordo degli strumenti necessari per pervenire ad un giudizio sulla meritevolezza dell’evento da parte della Regione che dovrà disporlo, e la brutta abitudine degli amministratori di ricorrere alle fusioni in modo spesso inconsulto si corre il rischio di generare dei mostri.
Così facendo si rischia di tradurre lo strumento della fusione, indispensabile per diminuire drasticamente e saggiamente la platea delle istituzioni locali, oramai insostenibile, un elemento dirompente e pericoloso per il futuro delle collettività locali. E ancora. Si corre il rischio di mettere in forse, più di quanto già lo siano, gli equilibri economici degli enti interessati con quello più generalmente preteso dal
la Costituzione.
(L’articolo è in pubblicazione anche su il QuotidianoEELL&PA de IlSole24Ore)
*Docente Unical
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