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Reggio è dei nostri figli, non dei mafiosi. Riprendiamocela

A Reggio Calabria la respiri nell’aria la tensione. Si riassapora la “citta’ dolente” degli anni ’80-’90. Abbiamo ripensato alle auto bruciate delle scorse settimane, all’incendio all’ingresso del…

Pubblicato il: 29/05/2017 – 10:13
Reggio è dei nostri figli, non dei mafiosi. Riprendiamocela

A Reggio Calabria la respiri nell’aria la tensione. Si riassapora la “citta’ dolente” degli anni ’80-’90. Abbiamo ripensato alle auto bruciate delle scorse settimane, all’incendio all’ingresso del bar Ficara del quartiere Tremulini, alla gambizzazione di un postino e di un architetto. Abbiamo pensato alle minacce continue di cui si parla ma che nessuno denuncia e al ritorno delle estorsioni, alle cose lette sull’omicido di un ex carabiniere che gestiva la rivendita di tabacchi nella zona nord dell’area metropolitana. Soprattutto abbiamo pensato all’anonimo sparatore che una sera, fucile in pugno, si è infilato in un bar del lungomare per poi iniziare a far fuoco contro le vetrine della gelateria. Segnali di qualcosa che sta succedendo, di equilibri mafiosi che stanno cambiando. Siamo convinti che questa sia una fase molto particolare per l’Italia. Le mafie si stanno riorganizzando, stanno cambiando rapidamente, forse sono già cambiate.
Proprio per questo chi fa il nostro mestiere deve, più che in passato, “studiare”. Bisogna capire. Allora abbiamo pensato a Reggio Calabria, ai silenzi che avvolgono la città in contrapposizione al nuovo dinamismo criminale che si registra. La magistratura nell’ultimo decennio ha inferto colpi durissimi ai vertici dei clan della città e della provincia. Sono finiti in carcere i capi dei De Stefano, dei Condello, dei Libri, dei Tegano e via via di tutti gli altri. Lo stesso in provincia. E con gli arresti sono arrivate le condanne che hanno sepolto moltissimi mammasantissima sotto decine di anni di galera. Il vuoto ha evidentemente attivato gli appetiti delle seconde, terze e quarte file delle cosche che ora puntano a riprendersi la città, che sentono come propria per diritto dinastico. A Reggio dicono “piscialetto”, ma che aspirano al ruolo di boss. Sono tornati a sparare a Reggio Calabria, in maniera sistematica. Smetteranno solo quando nuove regole saranno stabilite.
Sarebbe un errore se la città si accontentasse di stare alla finestra a guardare. Non lo sta facendo la magistratura e non lo stanno facendo le forze dell’ordine. Non può consentirsi di farlo l’opinione pubblica. La stampa ha il dovere di alzare il livello d’attenzione, la politica ha il dovere di creare le condizioni perché il vuoto lasciato dalle cosche sia occupato dalla parte buona della società. Non si può attendere passivamente di capire chi saranno i nuovi padroni. Sarebbe l’ennesima sconfitta per una Reggio che ne ha subite tante, troppe. E per troppo tempo. L’eco delle armi da fuoco può essere spento soltanto dal controcanto della cultura, dei servizi sociali, del lavoro buono, delle pratiche di legalità, della denuncia. Fermo restando il lavoro di repressione che tocca a forze dell’ordine e magistrati, la ragione e il cuore, l’amore per una terra ferita, ci spinge a chiedere a tutti e ad ognuno di rispondere su un altro piano, più alto e vitale.
Chi può e chi deve faccia la sua parte, e la faccia immediatamente. Si stanno spartendo la città per l’ennesima volta, come alla fine della guerra di mafia nel ’91, ma la città non è loro e forse non è neppure nostra. La città è dei nostri figli, e abbiamo il dovere morale di consegnargliela migliore. Migliore e libera dalle mafie e da chi le mafie protegge con le sue connivenze e con i suoi silenzi.

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