Parlando con Silvio Sangineto scopri che a 32 anni ha già visitato qualcosa come trenta paesi in giro per il mondo. Il suo inglese è così fluente che a volte fatica a trovare dei termini in italiano per esprimere un concetto. Ma conversando con lui ci si accorge subito che l’accento cosentino non lo ha mai abbandonato. Neanche nella Silicon Valley, dove è arrivato partendo da Paola. La storia di Silvio, ingegnere informatico, parte proprio da qui, dalla Calabria. La cittadina del Tirreno Cosentino per formarsi come persona e poi l’Unical per gettare le basi della sua carriera. E dalla California non vuole spezzare i legami con la terra d’origine.
Silvio, partiamo da oggi. Si trova nella mitica Silicon Valley. Di cosa si occupa?
«Io sono laureato in ingegneria informatica. Dopo un lungo percorso che mi ha portato qui in California, sono diventato uno user experience design. Il punto centrale del mio lavoro sono le persone: studio loro piuttosto che il mercato. Cerco di fare da collante con l’azienda, affinché il prodotto che sarà realizzato sia il più semplice e il più facilmente utilizzabile dalle persone. Io utilizzo, tra le altre cose, le analisi qualitative e quantitative per capire come un determinato prodotto ma anche un servizio o un’applicazione possano soddisfare il cliente finale. Un nuovo ruolo aziendale, questo, che negli ultimi tempi ha un trend in forte crescita».
Quindi non è il solito lavoro da ingegnere che la porta a stare davanti al computer?
«No. Cercavo qualcosa di diverso da tutto questo. Per essere arrivato dove sono ora devo ringraziare tutti i miei spostamenti, le esperienze che ho avuto. Purtroppo se fossi rimasto in Calabria non sarebbe successo, lì c’è ancora una visione limitata dell’ingegnere informatico che è quella del semplice sviluppatore. Ma c’è ben altro. E soprattutto io volevo qualcosa di diverso da questo lavoro».
Tipo?
«Stare a contatto con le persone. Per me è sempre stata una passione. Da ragazzo a Paola ho avuto diverse esperienze nel mondo dell’associazionismo, mi sono attivato molto per cercare di migliorare il mio territorio, fare qualcosa per le generazioni future. Tutte cose che mi portavano a stare a contatto con gli altri e portare avanti delle battaglie per migliorare il nostro territorio. Poi ho cercato sempre di non allontanarmi troppo dai miei obiettivi che erano quelli di viaggiare e far sì che la mia esperienza potesse essere di aiuto per tanti ragazzi calabresi che sono costretti ad andare via dalla Calabria».
Come è giunto in California?
«È stato un percorso lungo, frutto delle mie scelte personali ma senza costrizioni. Ho lavorato in numerose città tra cui Milano, Roma, Londra, Bruxelles. Questi spostamenti in genere erano quasi sempre legati a motivi personali. Ho cambiato spesso perché cercavo sempre qualcosa di nuovo, che mi stimolasse di più. Sono sempre stato uno che ha cercato di realizzare i propri sogni, di essere felice del lavoro che andavo a fare. Lasciare una città o una posizione è sempre stata una mia scelta. In pratica mi licenziavo io, ma le offerte non sono mai mancate. Sul finire del 2015 mi trovavo a Bruxelles e la situazione delicata, i rischi di attacchi terroristici non mi facevano stare tranquillo. Quindi ho fatto un passo indietro e sono tornato di nuovo in Calabria. Qui mentre tenevo dei seminari all’università cercavo di riorganizzare la mia vita. Fino a quando un giorno non ho ricevuto la proposta che mi avrebbe portato in California. E qui fondamentale è stata la spinta di mia madre (giuro!) che mi ha convinto a fare di nuovo le valigie».
E poi com’è andata?
«Sono qui da un anno e mezzo. Mi sono sentito subito a casa, accolto. Gli americani sono molto accoglienti e gentili, al contrario di come si poterebbe pensare. Poi ho trovato molte somiglianze con la Calabria…».
Scherza?
«No. Spesso gioco sul fatto che entrambe iniziano con le stesse tre lettere. A parte questo, qui in California c’è un’area industriale che mi ricorda molto quella di Rende, piena di capannoni e di strutture. Quando la guardo penso sempre alla Calabria e di come anche da noi potrebbero esserci le stesse opportunità di sviluppo che ci sono qui».
A questo punto la domanda è d’obbligo: dove vede il suo futuro?
«Tra la Calabria e la California. Certo, sono due entità diverse ma le innovazioni e le esperienze che si sviluppano qui si possono esportare anche nel nostra terra».
Una sorta di ponte “Calabria-California”, quindi. Ha già qualche idea?
«Penso alla forza-lavoro dell’Università della Calabria, dove mi sono formato e con la quale mantengo ancora numerosi contatti e ho dei buoni rapporti con alcuni docenti. Oppure al Talent Garden di Cosenza di cui sono mentor. Ecco, si può partire da lì. Non voglio parlare di investimenti, di fondi e di finanziamenti, ma di persone. Di giovani studenti che hanno voglia di fare e che sappiano mantenere una visione ampia sul mondo».
Chiudiamo ritornando ad un argomento che abbiamo lasciato in sospeso prima. Cosa vuole dire ai giovani costretti ad andare via?
«La Calabria per me è stata determinante in tutte le scelte che ho fatto sia per i valori positivi ma anche per quelli negativi, come il senso di rivalsa verso molte cose che non vanno. Quello che posso consigliare loro è di adottare un approccio individualista nelle proprie scelte. Non egoista, attenzione. Affidarsi di meno al politico di turno e a promesse millantate ma cercare invece di seguire le proprie passioni, i propri sogni e anche la propria felicità. Fare in modo che partire o restare non sia un obbligo ma una scelta».
Adelia Pantano
redazione@corrierecal.it
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