Le motivazioni soggettive hanno potuto purtroppo soltanto innescare il tragico evento accaduto a Montalto, che non si discosta molto nella dinamica da altri suicidi allargati che hanno coinvolto in diverse occasioni le forze dell’ordine. Quello dell’agente penitenziario, poi, è un lavoro estremamente faticoso e complesso sul piano emotivo, soprattutto in considerazione delle condizioni attuali degli istituti di pena italiani.
Se è difficile, infatti, integrare l’istanza punitiva con quella della rieducazione, è altrettanto complessa la definizione concreta del ruolo ambiguo di chi è chiamato a mettere insieme due aspetti difficilmente conciliabili: la repressione e la riabilitazione.
Gli agenti sono in continuo contatto con il dolore, la disperazione, l’aggressività, la rabbia e le esigenze dei detenuti ma nello stesso tempo devono mantenere una posizione di distacco e superiorità al fine di valutare quali richieste soddisfare in relazione al proprio ruolo. E spesso tra le mura del carcere sono da soli.
Tutto questo, unito allo stress dei turni ed alle condizioni di un lavoro svolto in strutture che non forniscono gli strumenti adatti per un miglioramento effettivo della situazione sia per i detenuti che per gli agenti, può far perdere lucidità. Nei casi più gravi può portare ad un vero e proprio cortocircuito mentale noto come sindrome del burnout, vale a dire dell’operatore “bruciato”, che ha delle conseguenze evidenti nella vita privata.
Non a caso a soffrire di questa sindrome sono spesso proprio gli operatori di polizia e tutti coloro i quali svolgono un lavoro correlato a processi di idealizzazione e successiva disillusione rispetto alle aspettative personali investite nell’istituzione di appartenenza.
*avvocato penalista e criminologa
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