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MANDAMENTO | Se il Tribunale lo costruiscono i Cordì

LOCRI Le «speciali misure di sicurezza e segretezza» disposte dalla Prefettura di Reggio Calabria per la realizzazione del nuovo Palazzo di giustizia di Locri non sono state sufficienti ad allontan…

Pubblicato il: 04/07/2017 – 17:37
MANDAMENTO | Se il Tribunale lo costruiscono i Cordì

LOCRI Le «speciali misure di sicurezza e segretezza» disposte dalla Prefettura di Reggio Calabria per la realizzazione del nuovo Palazzo di giustizia di Locri non sono state sufficienti ad allontanare i clan da una torta di diversi milioni di euro (12,8 per l’esattezza). La procedura di aggiudicazione dell’appalto era stata bloccata qualche tempo prima – il 18 luglio 2006 – per il concreto «rischio di condizionamento e d’infiltrazione mafiosa». Tre imprese sulle quattro che avevano presentato un’offerta erano destinatarie di interdittive antimafia. Stop alle macchine, dunque. Si riparte con un protocollo d’intesa tra Prefettura e Comune. Con una motivazione inoppugnabile: «Consentire alle cosche di tentare di impadronirsi di un’opera di tale rilievo (…) costituirebbe una vera e propria sconfitta». Sconfitta servita, stando al decreto di fermo monstre nel quale la Dda di Reggio Calabria racconta la presenza asfissiante dei clan nella Locride. L’infiltrazione, secondo i magistrati, avviene «da parte della famiglia Orlando di Locri (e non solo)». Si tratta di un ramo della cosca Cordì: il trait d’union tra le famiglie è Massimo Orlando. È lui a sfruttare l’«unico anello debole nella catena di controlli» immaginata per ripulire il cantiere da presenze criminali. Orlando entra nei lavori «camuffando le sue funzioni imprenditoriali e occultando l’operato della sua manovalanza (quello riconducibile alla sua Edil Master sas) ponendo il tutto alle dirette dipendenze della Caparelli (la ditta aggiudicataria dell’appalto, ndr)». Con questo escamotage, l’imprenditore evita controlli stringenti (che avrebbero coinvolto congiunti, parenti e affini): il suo camuffamento – realizzato attraverso la sua assunzione e quella di un certo numero di operai – restringe i controlli alla singola persona. E Orlando era «privo di iscrizioni al casellario giudiziale». Il tentativo riesce: l’uomo è «il reale gestore dei lavori», si interessa «dell’esecuzione delle opere, delle questioni burocratiche», impartisce «direttive agli operai impegnati in cantiere», determina «i tempi di sospensione e prosecuzione delle lavorazioni». E la Edil Master si fa un nome a Locri: la sua fama giunge fino al boss Antonio Cataldo che, parlando con Salvatore Ursino, il suo interlocutore preferito in tema di appalti, si chiede «questi Orlando chi sono? Questi della ditta?… Stanno facendo lavori da tutte le parti!». Il capoclan sa come funziona il “sistema”: «Ma pure qua al Tribunale lavorano loro?». «Sì, pure là al Tribunale lavorano…», risponde Ursino. Ciò che, all’epoca (le intercettazioni risalgono al 2013), sfugge ai protocolli di legalità, è ben noto ai “padroni” della città: «Ma questi Orlando qua… non sono parenti dei Cordì?», dice ancora Cataldo. Che è informatissimo sugli affari della ditta. Anche quelli eseguiti al supermercato “Family” dopo «una chiara attività estorsiva messa in campo dai Cordì: «Ma io ho sentito, siccome ora ho sentito qua parlare … ti dico che là sotto al Family… Ci sono gli Orlando… E certo! Questi del Family… prima gli hanno sparato… Non mi hai capito… e poi sono entrati gli Orlando…». 
Tutto si può dire tranne che il boss non colga i paradossi. Cataldo rievoca i fatti di sangue che, a suo dire, legano la famiglia Orlando ai Cordì. Omicidi, tentati omicidi, spedizioni punitive in un salone da barba. E sottolinea l’anomalia «che la realizzazione di un baluardo della legalità quale il Tribunale fosse devoluto proprio all’opera di soggetti coinvolti in quegli efferati fatti di sangue: “… gli date il lavoro al Tribunale? – dice –. Cioè ma che cazzo di imbrogli?». E se lo dice pure Cataldo bisogna credergli. 
Ma la presenza di Massimo Orlando e della sua Edil Master (seppure camuffata) nel cantiere del Palazzo di giustizia non è l’unica a far drizzare le antenne degli investigatori. C’è, infatti, anche l’impresa Ursini Lina, riconducibile a Gianluca Scali. In questo caso, più che di camuffamento si può parlare di rimozione. La ditta, «destinataria di interdittiva antimafia il 28 aprile 2015, non rientrava tra quelle indicate nell’allegato al contratto d’appalto e non risulterà (…) dal carteggio acquisito presso la stazione appaltante, alcuna comunicazione di sostituzione e relativa autorizzazione subordinata al possesso dei requisiti richiesta ai sensi della normativa antimafia». L’impresa avrebbe fornito una betoniera (al costo di 147mila euro) per la realizzazione dei lavori: un fatto “nascosto” nelle carte ufficiali ma assolutamente trasparente secondo gli accertamenti della Dda. A volte i protocolli di legalità non bastano. 

Pablo Petrasso
p.petrasso@corrierecal.it

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