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«Le giuste ragioni di una condanna»

Uno dei fondamentali principi che scandirono i fasti della Roma “caput mundi” è senz’altro identificabile nel “suum cuique tribuere”. Riconoscere i meriti degli altri! Da queste parti sempre di più…

Pubblicato il: 11/07/2017 – 9:58
«Le giuste ragioni di una condanna»

Uno dei fondamentali principi che scandirono i fasti della Roma “caput mundi” è senz’altro identificabile nel “suum cuique tribuere”. Riconoscere i meriti degli altri! Da queste parti sempre di più “rara avis”. Ed è per questo motivo che oso sottrarre tempo e forse anche un po’ di spazio, poiché avverto il dovere morale di ribadire “urbi et orbi” che se un Tribunale della Repubblica, egregiamente presieduto ed altrettanto squisitamente integrato (Natina Pratticò, Stefania Rachele, Arianna Raffa,), recependo la pressoché conforme richiesta del pm Massimo Baraldo, ha condannato l’ex consigliere regionale Antonino Rappoccio per i reati di associazione per delinquere, truffa e corruzione elettorale, il merito non è da ascrivere alla Procura della Repubblica allora diretta dal procuratore capo Giuseppe Pignatone, che, parafrasando il mitico Enea di virgiliana memoria, poi «ai lidi di Lavinio errando venne». Rectius, è andato. Semplicemente perché l’approdo processuale sfociato nella richiamata condanna è il frutto solo ed esclusivamente dell’onestà intellettuale del già avvocato generale dello Stato Francesco Scuderi che, dopo aver rigettato una mia precedente istanza di avocazione, non esitò ad accogliere la seconda, stigmatizzando l’inerzia investigativa che ha contraddistinto il percorso istruttorio di quanto devoluto alla superiore valutazione della Procura anche dopo il trasferimento a Roma del dottor Pignatone.
Le conclusioni giuridiche della Procura generale, coordinata da Salvatore Di Landro ed elaborate da Francesco Scuderi, sono state condivise, altresì, dal presidente della sezione Gip-Gup Vincenzo Pedone, dal Tdl presieduto da Filippo Leonardo, dalla Suprema Corte di Cassazione e quindi anche dal gup Dott.ssa Silvana Grasso che ordinò il rinvio a giudizio di Rappoccio; nonché di Massimo Minniti, altro Gup che, chiamato ex post a giudicare con il rito abbreviato, ha condannato, anche per associazione per delinquere, due dei correi di Rappoccio che la Procura della Repubblica prima del risolutivo intervento avocativo non riusciva ad identificare.
Gli altri, alquanto numerosi, sono tutti in attesa di giudizio ordinario innanzi il Tribunale Penale Collegiale reggino. Questa è la storia, ma anche la geografia che ha affrescato una pagina tenebrosa della Giustizia, nella cui cornice si è registrato il glaciale distacco della Procura reggina in ordine al reato associativo ed altri, tutti letteralmente schivati pur avendo a me chiesto un sostituto (ancora oggi in servizio) il deposito di un ulteriore esposto comprensivo di tutte le istanze precedentemente depositate. Anche questo puntualmente destinato ad “illacrimata sepoltura”.
Onore quindi al merito di chi non ha avvallato un’impostazione indagatoria a dir poco sgusciante, riduttiva e quanto meno parziale, letteralmente dissacrata da uno stuolo di magistrati, nel cui contesto non posso tralasciare l’indignata reazione dell’attuale procuratore capo Federico Cafiero De Raho, che è letteralmente insorto – sollecitando l’immediata ricautela –  avverso l’escarcerazione dell’allora imputato Rappoccio, disposta dal Tribunale (il cui presidente adeguatamente incalzato si è astenuto) semplicemente perché «aveva chiuso la segreteria politica ed era stato sospeso (responsabilmente) dal partito di appartenenza». Dimenticavo: con coerente rispetto del principio romanistico ut supra richiamato, devo, conclusivamente, esprimere riconoscenza e stima anche al mio difensore Carmelo Malara, un tempo mio prezioso collaboratore.

 

*ex presidente della commissione di Vigilanza

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