Chiusa la campagna elettorale, celebrato il rito delle votazioni, proclamati gli eletti è finita come, forse, è giusto che sia la contrapposizione ideologica; cosicché i mestieranti della politica hanno potuto ritrovare anche il gusto dell’antica regola del “volemose bene” senza più dover sottostare alle regole non codificate della campagna elettorale che, per un verso, li schiacciava nelle loro responsabilità e, per un altro, li ha fatti apparire come mecenati del bene comune: la Città!
Fa senso apprendere che tutti gli schieramenti presenti nell’aula rossa di Palazzo De Nobili, senza alcuna distinzione, si siano ritrovati a rinnovare il rito delle nomine nelle commissioni consiliari. Così, manuale Cencelli alla mano, hanno declinato i loro nominativi nella grande organizzazione che garantisce a ciascuno un introito oltre a quello previsto per le riunioni del Consiglio. L’impressione che si è avuta è stata che la divisione sia avvenuta tenendo conto probabilmente dell’ ”anzianità di servizio” e non per le capacità professionali di ciascuno: due commissioni ciascuno per i neofiti e tre per gli altri, quelli di lungo corso.
Naturalmente qualcuno è rimasto fuori dal giro come nel gioco di carte del “padrone e sotto”. Ma c’è anche chi, probabilmente non condividendone il sistema, ha preferito rimanere fuori dal giro.
Ma perché la nomina in più di una commissione? L’articolo 34 del regolamento del consiglio comunale prevede che il consigliere componente di almeno due commissioni consiliari permanenti può chiedere la trasformazione del gettone in indennità di funzione che è pari ad un terzo dell’indennità che spetta al sindaco. Considerato, infatti, che il primo cittadino di una città che non supera i centomila abitanti percepisce un appannaggio mensile di circa cinquemila Euro, un consigliere ne può incassare 1.600. Ecco spiegate le “sgomitate” per assicurarsi un posto al sole, anche a quello tiepido. E non ci sono state eccezioni: la minoranza è presente nell’elenco con gli stessi nominativi che in campagna elettorale, da “Chanson des gestes”, avevano tuonato contro la scarsa serietà di quanti avevano governato. Sono gli imprevisti della vita. Picasso diceva che “l’accidentale rivela l’uomo!”.
Ritorniamo comunque all’attività connessa con il tornaconto personale. Essa comporta un esborso di denaro pubblico che non può essere sottovalutato e che, se impegnato per altro, potrebbe risolvere più di un problema importante per la comunità. E che non si venga a dire che lo prevedono i regolamenti perché, volendo, si può anche rinunciare all’appannaggio.
Non è questa l’unica solfa suonata male in una città nella quale sembra non susciti più alcuna meraviglia che il denaro pubblico, quello di tutti, possa essere gestito in un certo modo. E’ passato infatti sotto silenzio che al capo di gabinetto del Sindaco sia stato comminato un trattamento economico di tutto riguardo: si parla di oltre centomila euro all’anno. Molto?, Poco? Il suo omologo di Milano ne guadagna 140 mila…
Nonostante tutto Catanzaro non solo vive, ma si avverte una flebile speranza alla quale la cittadinanza rimane aggrappata: che la (nuova?) classe politica si compiaccia perché il Capoluogo possa nuovamente assurgere al ruolo che la storia antica gli aveva riconosciuto prima che rimanesse vittima delle logiche spartitorie; prima che le venisse rosicchiato voracemente tutto o quasi, ostruendole le porte del futuro.
Catanzaro ha urgenza che si cominci a pensare in positivo, a come bisogna intervenire per trasformare la città, a come superare le contrapposizioni tra i quartieri che sono la causa prima che impedisce di farla sentire e diventare un’unica entità. Un obiettivo che si raggiunge senza più dribblare il problema, ma affrontandolo con determinazione. E si capisce che per fare tutto ciò c’è bisogno di una classe politica seria!
Sono questi episodi che, rimanendo incompiuti, provocano nella popolazione reazioni emotive giustificate anche perché riferite ad una Città tra le più derelitte della Calabria che occupa gli ultimi posti quanto a crescita sociale per come ci dice l’Istat. Il che significa che ciò che viene consentito ad un cittadino che abita in qualsiasi altra città di qualsivoglia altra regione italiana non è consentito ad un calabrese forse perché è considerato come figlio di un dio minore; quello stesso dio che però, quando si debbono applicare le norme fiscali e pagare le tasse, diventa uguale per tutti. Un sistema che non può più andare avanti perché i governanti non vogliono rendersi conto che, se non decolla il Sud, il Paese intero è destinato a rimanere fermo al palo.
In questa realtà si inquadra anche il fenomeno dell’astensionismo che in Calabria, come in altre aree del Mezzogiorno, assume forte la dimensione del dissenso verso una classe politica che, quanto a credibilità, dimostra di essere messa abbastanza male.
Sembra che non importi a nessuno che l’Italia sia divisa, che il Mezzogiorno, e la Calabria in particolare, versano in uno stato di arretratezza e di ingiustizia sociale senza pari che generano sconforto tra i giovani e tra le famiglie che assistono al vanificarsi dei sogni con i quali pensavano di interpretare il futuro. Oggi che soprattutto il lavoro rimane una chimera per i calabresi, oggi che non ci sono più certezze, che persino le risorse stanziate dall’Unione Europea finiscono anche con l’essere dirottate nelle casse delle regioni del Nord (questo bisognerebbe ricordare a Salvini che ha l’ardire di proporre il suo movimento politico anche al Sud) apprendere che un impiegato assunto, sia pure a tempo determinato, possa gravare sull’economia precaria della città per oltre centomila euro all’anno fa rivoltare persino i morti nelle tombe.
*giornalista
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