COSENZA Quella che da due giorni fa ombra al monte Sant’Elia non è una nuvola. È una coperta torrida che si stende sulla Piana di Lamezia: l’effetto di idiozia criminale, difficoltà di sistema e temperature (troppo) elevate. Ad Acquafredda, un piccolo mondo antico a pochi chilometri da Lamezia, la gente è rimasta tappata in casa per più di un giorno. L’aria bruciava la gola, era irrespirabile. I vestiti buoni preparati per l’inaugurazione dell’oratorio atteso da 25 anni sono stati riposti nei cassetti, hai visto mai che il fuoco non si avvicini troppo alle case. È iniziato tutto mercoledì poco dopo l’ora di pranzo, in una zona di campagna troppo distante perché qualcuno potesse vedere chi ha appiccato il fuoco. Poi il fronte delle fiamme si è allargato. A dismisura: centinaia di metri e poi chilometri di devastazione. La montagna, vista da lontano, pareva un vulcano.
In provincia di Cosenza, invece, bruciano la Sila e i rilievi che danno sulla valle del Crati. Da nove giorni l’area urbana è sovrastata da polveri sospese. Si boccheggia: 35, poi 37, infine 42 gradi. Sul forno ventilato che è diventata l’area urbana vola un tappeto di cenere. Venerdì il clima dovrebbe diventare più clemente ma il rogo da Rose ha invaso il territorio di San Pietro in Guarano. Brucia da dieci giorni.
(L’incendio a Rose brucia da nove giorni)
EMERGENZA IMPOSSIBILE (O FORSE NO) Area del Pollino, un giorno qualunque delle ultime due settimane. Al centralino dei Vigili del fuoco arriva una chiamata, poi un’altra e un’altra ancora. Un’auto è finita in un burrone, un’altra è stata data alle fiamme e c’è un incendio nel Parco. Come si fa? Non si fa, ed è proprio questo il punto.
Forse gestire l’emergenza era impossibile e forse no. L’unica certezza sono le migliaia di ettari lasciate sul campo. E un sistema quantomeno rivedibile. Chi ha lavorato per spegnere le fiamme non poteva fare di più: pompieri, personale di Calabria Verde, volontari della Protezione civile si sono sottoposti a turni massacranti. Rispetto agli altri anni, però, manca all’appello un carico di esperienza fondamentale. Vedremo quale.
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A Mormanno governa da pochi mesi Giuseppe Regina. Giovedì ha scritto una lettera durissima alle autorità: «Il sistema non funziona: manca il pronto intervento, i mezzi sono insufficienti e si commettono errori pericolosissimi». Mercoledì sera a Carpineta, frazione non lontana dal centro abitato, il fuoco era spento. Il Dos (direttore delle operazioni di spegnimento) aveva rassicurato tutti: le operazioni di bonifica necessarie per impedire che l’incendio ripartisse erano state segnalate come prioritarie per il giorno successivo. E invece non è arrivato nessuno a bonificare l’area. E il rogo è ripartito, bruciando per sei ore prima dell’arrivo di un elicottero. «Questo sistema – si lamenta Regina – non riesce a considerare con oggettività le priorità da affrontare. Siamo sbigottiti e spaventati».
(Uno dei roghi in Sila – foto da Facebook)
TERRITORIO SGUARNITO Il Pollino è il fronte nord della guerra alle fiamme. Un fronte privo di un gruppo di “soldati” che lo conoscono bene, benissimo. Da quando le competenze del Corpo forestale dello Stato non si estendono più fino agli incendi boschivi, il territorio ha perso uomini e squadre che ne conoscono ogni palmo. «I Vigili del fuoco non hanno nessuna colpa – spiega un investigatore –. Un patrimonio di esperienza fondamentale è stato messo in stand by. I Dos possono essere preparati quanto si vuole ma la conoscenza del territorio è fondamentale». E dunque, a prescindere dalle cause – l’idiozia criminale –, c’è un’amplificazione degli effetti dovuta alle difficoltà di gestire un’emergenza senza una parte degli uomini che l’hanno sempre affrontata. E che quest’anno non possono fronteggiarla dopo la riforma voluta dal governo.
«Gli allarmi sugli attacchi criminali nel Pollino e in Sila sono comprensibili – spiega il nostro interlocutore –. Ma i roghi sono dappertutto ed è difficile pensare che la stessa strategia che avrebbe pensato la distruzione dei boschi abbia pianificato l’incendio che ha minacciato il Castello Svevo a Cosenza. Non si possono coprire gli errori commessi con l’allarme criminalità. Qualche volta ci si dovrebbe fermare e dire “abbiamo sbagliato”».
Non può fermarsi di certo il lavoro degli inquirenti. Prendere gli incendiari è difficile: «Sono dei professionisti, ormai realizzano inneschi sofisticati che partono in ritardo. Sono mossi da interessi speculativi e difficili da individuare. E poi come lo controlli il territorio se non ci sono uomini?».
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PASCOLI E LEGNA: I BUSINESS DEL FUOCO Il business, o i business, che si nascondono dietro i boschi non aiutano certo a restringere il campo delle indagini. Ieri l’Avvenire ha rilanciato un’ipotesi già affiorata dopo l’avvio di un’inchiesta sull’incendio che, per giorni, ha devastato le montagne di Longobucco. Il sospetto è che le fiamme siano state alimentate per motivi speculativi legati all’utilizzo dei terreni. La zona è vicina alla località Serrastoppa, oggetto nei mesi scorsi di un’attività d’indagine da parte della Procura della Repubblica di Castrovillari per una vicenda di disboscamento abusivo su terreni demaniali. La legna, appunto. Al quotidiano della Cei il procuratore di Cosenza Mario Spagnuolo ha spiegato: «Quando un bosco viene toccato dalle fiamme poi va ripulito. Ma quando si ripulisce si taglia anche la parte buona. Il fuoco aiuta…». E potrebbe aiutare chi, dimenticando gli scrupoli per l’ambiente, ha interesse a piazzare legname o scarti di bosco per alimentare centrali a biomasse. Ai magistrati di Castrovillari, invece, sono arrivate segnalazioni sull’utilizzo dei pascoli. Alcuni comuni hanno dato i terreni in affitto: dacché erano aree condivise da più mandrie sono diventati di esclusivo utilizzo di alcuni privati. Qualcuno potrebbe aver mal digerito questa “privatizzazione”. Tutte le ipotesi sono sul tappeto. Mentre la Calabria brucia come in un brutto film. Già visto, purtroppo. E forse inevitabile o forse no. Di sicuro non sentiremo nessuno dire “abbiamo sbagliato”.
Pablo Petrasso
p.petrasso@corrierecal.it
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