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«Quando il carcere è "in carne e ossa"»

«Una scommessa e un esperimento». Questo è, per Franco Ferrarotti che firma la prefazione, il libro appena uscito (Guida editori) di Nicola Siciliani de Cumis dal titolo che trancia, seduta stante,…

Pubblicato il: 14/08/2017 – 10:27
«Quando il carcere è "in carne e ossa"»

«Una scommessa e un esperimento». Questo è, per Franco Ferrarotti che firma la prefazione, il libro appena uscito (Guida editori) di Nicola Siciliani de Cumis dal titolo che trancia, seduta stante, ogni interpretazione di segno idealistico: «Una scienza in carne ed ossa». Di quelle che, applicate agli umani (specie se in carcere o migranti o peggio migranti in carcere), non scendono dall’Olimpo pedagogico (sul punto, fra l’altro, si sofferma la psicologa Maria Serena Veggetti in una suadente e particolareggiata presentazione del testo). Non una scienza fabbricata con certezze metodologiche, piuttosto tutta protesa sul versante («ad esse contrapposto») del «mettersi in gioco», accettando la possibilità dell’errore. E, sfidando la vulgata, che s’infischia persino degli impegni assunti dalla Costituzione, per cui la sicurezza del cittadino onesto esige penitenziari traboccanti. Quella vulgata che fa dire alla direttrice del carcere di Reggio Calabria Maria Carmela Longo che «siamo un popolo di forcaioli. Predichiamo la libertà, facendo leva sul nostro fondamento cattolico. Ma siamo un popolo di forcaioli che si fa facilmente condizionare dai giudizi di un’informazione massificata. Ora più che mai. Siamo fortemente condizionati anche dal modo in cui si presentano le notizie, dalla ricerca del torbido, dal desiderio di punire e vendicarsi a tutti i costi». Racconta il carcere, Nicola Siciliani. E la vita dei carcerati incontrati a Regina Coeli e a Siano («Casa Caridi») di Catanzaro. Non astrattamente, ma in virtù di frequentazioni quotidiane e di un’esperienza vissuta sul campo. Dopo decenni di “Sapienza” (dov’è approdato nell’82) e di lezioni di pedagogia generale, Siciliani, uno dei massimi studiosi di Labriola e presidente dell’associazione Makarenko (il fondatore della pedagogia sovietica), ha scelto d’infilarsi nelle carceri e toccare con mano patimenti, solitudini abissali, iniquità risapute ma pietrificate,  attraverso specifici “laboratori di scrittura e lettura” che sono i materiali di un libro che, come segnala Ferrarotti, lascia intuire che ormai la concentrazione, quella funzione logica che può preservare  le relazioni umane dalla mercificazione imperversante, «è oggi più facile nel mondo della coercizione carceraria». Un bel risultato. E, al contempo, la prova inconfutabile del fallimento di un progetto di società che fa acqua da ogni poro. Senza evocare spiriti eletti o maestri del pensiero razionale, è indubbio che il cancro che invade le nostre società è ravvisabile a occhio nudo in un sistema carcerario che, dopo secoli di “preghiere laiche” sedimentate in testi solenni, è diventato un luogo di punizione volto allo sfinimento della personalità, in cui il soggetto, piuttosto che rinascere dalle sue ceneri, è lasciato nelle grinfie della casualità, della promiscuità, dell’irrilevanza culturale.  Nicola Siciliani tenta di restituire il diritto di parola ai carcerati di Roma e Catanzaro con cui entra in contatto e che appaiono «annientati come esseri umani e ridotti a cifre in uno schedario». 
Sono innumerevoli casi di suicidi, di autolesionismo disperato e le incongruenze costituzionali del “fine pena mai” di cui si dà conto nelle pagine del volume dedicato al “maestro del dubbio”, lo storico e filosofo Giovanni Mastroianni. Episodi che evidenziano, al di là degli esempi commendevoli che pure non mancano in alcune strutture del Paese, il paradosso del carcere ormai collettivamente percepito come luogo avulso dal resto della società, perché chiuso dentro le mura. Ma che in realtà è spesso l’unica risposta dello Stato al disagio sociale. E come tale, un luogo aperto a tutti. Eppure tardano incredibilmente le soluzioni preventive alla sofferenza indotta dalla precarietà e dalla povertà, sicché si interviene solo dopo la commissione (o supposta) dei reati che, in quelle difficoltà spesso trovano la loro origine. Quelle risposte che sgraverebbero la società dai costi enormi di questo sistema, in cui, peraltro, proprio a causa del sovraffollamento, si affievoliscono le reali possibilità di applicazione del principio costituzionale di rieducazione della pena. 
Dentro questo universo chiuso eppure cosi aperto, eppure cosi comunicante con ogni segmento della società, Siciliani s’è addentrato con il candore di chi crede nelle asserzioni costituzionali. E l’ha fatto con la chiave interpretativa che si coglie fin dal sommario in copertina: «Makarenko nella Casa Caridi e altre storie di ordinaria inclusione 2015-2016». Ferrarotti esplicita il filo conduttore dei vari scritti che pongono un interrogativo capitale: «È possibile richiamare ex-uomini alla loro piena umanità, recuperare la loro autonomia, rimettere nelle loro mani la responsabilità della loro vita e, quindi, trasformare il carcere da luogo di punizione in occasione di autoconsapevolezza e di riorientamento esistenziale?». Il “Poema” di Makarenko serve a Siciliani come paradigma illuminante sui vissuti di persone senza libertà, ma a me pare che pregnante sia, se si vuol comprendere il libro (anche questo) e per entrare in affinità con lo stesso docente in servizio permanente, l’umanità stessa di Siciliani, segnata fortemente da percorsi “politici” e culturali per i quali l’uguaglianza fra individui è un punto di arrivo e di partenza senza il quale vince il potere di pochi sulle ragioni dei molti. Ecco perché il carcere non può continuare a essere concepito come un luogo che non ci riguarda, perché esso è (anche) l’esito di uno scontro in atto fra uguaglianza e discriminazioni fondate su un’arbitraria e iniqua appropriazione della ricchezza che connota marcatamente le società del nostro tempo e ritiene di non contemplare i diritti di tutti, ma, al contrario, di poterne soffocare il diritto alla felicità senza subirne i contraccolpi. Spiace soltanto che Siciliani tra gli innumerevoli “competenti” per scuola e cultura cui fa riferimento per richiamare lo Stato alla sua funzione primaria di Stato di diritto, non consideri i moniti tuonanti del cristianesimo e dello stesso Antico Testamento. 
In carcere perlopiù finiscono i nullatenenti, come dimostra l’altissima percentuale di immigrati, i cosiddetti “ultimi”, quelli che, privati di ogni reddito, cedono all’illegalità e soggiacciono, per un tempo indefinito, alle forche caudine di un sistema penitenziario eccessivamente burocratizzato. Figli di padri non ricchi e non in grado di sgombrare le nubi pesanti che s’addensano sul futuro dei  figli. Come dire che, a distanza di secoli e alla faccia di ogni declamata emancipazione umana, si riattualizza la prescrizione per cui “i padri mangiano l’uva acerba e i denti dei figli sono allegati”. Espressamente (Esodo 20,5): «Non ti prostrare davanti a loro e non li servire, perché io, il Signore il tuo Dio, sono un Dio geloso; punisco l’iniquità dei padri sui figli fino alla terza e alla quarta generazione…». 
Un’idea della colpa già stracciata da Ezechiele, per il quale la responsabilità è individuale. E va considerata nella sua complessità. E ancora. Dinanzi a un sistema carcerario che, secondo il XIII Rapporto sulle condizioni di detenzione in Italia dell’associazione Antigone, è riprecipitato nel dimenticatoio («le 15mila unità di cui si è ridotta la popolazione penitenziaria tra il 2010 e il 2015 hanno ricominciato silenziosamente a rientrare in carcere»),  mentre – come scrive il Fatto Quotidiano – «è ripartito il leitmotiv dell’uomo nero e delle campagne sulla sicurezza», come capita a ogni avvicinarsi di elezione politica, viene quasi  da affidare ogni speranza al senso di giustizia che si sprigiona nei Vangeli. Potente e assordante, infatti, per chi ha orecchie per ascoltare, è l’ingiunzione del “Figlio dell’uomo” a occuparsi dei carcerati (Matteo 25,31-46):  «…ero in carcere e siete venuti a trovarmi». È severa la punizione, per chi dei carcerati se n’è infischiato: «Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per
il diavolo e per i suoi angeli». 
Non ci resta, dunque, dopo alcuni anni di dibattito intorno al senso della pena e di riforme alcune realizzate e altre promesse, e quand’è evidente «che stiamo tornando nuovamente indietro», che sperare nel cristianesimo militante? La cultura laica dovrebbe porsi qualche domanda.

*Giornalista 

 

 

 

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