«Nasa. Intercettato ieri mattina uno strano segnale proveniente da un ufficio regionale calabrese. I ricercatori: troppo presto per parlare di forme di vita». Il finto titolo de Lo Statale Jonico, pagina di satira molto seguita sui social network, potrebbe in realtà adattarsi bene non solo al contesto calabrese, ma anche a quello di tutto il Belpaese. È infatti almeno dai tempi di Machiavelli che l’italiano medio viene descritto come furbacchione, scansafatiche e dedito al sotterfugio, se non proprio alla truffa. E figurarsi se non viene altrettanto facile, restando nel campo degli stereotipi, assicurare in queste “categorie” un posto di rilievo ai meridionali, che dell’uomo medio italico secondo il (pre)giudizio comune potrebbero rappresentare la quintessenza.
Ironia a parte, però, la sequenza di inchieste che svelano questo o quell’assenteista, ormai diventato obbligatoriamente “furbetto” – in varie declinazioni, dal “cartellino” alla famigerata “104” – nelle scorciatoie narrative del giornalismo contemporaneo, comincia ad essere impressionante. A stupire ovviamente non è la sostanza delle magagne che entrano ed escono dall’immaginario collettivo nell’arco di mezza giornata, quanto piuttosto il senso di impunità che emerge puntualmente dal racconto – comunque filtrato da Procure e polizia giudiziaria – delle malefatte dei protagonisti. Insomma, più ne arrestano e più ne spuntano di nuovi, di questi “furbetti” che, non paghi di avere il privilegio sempre più raro di un posto pubblico garantito a vita, pretendono anche di non dover fare quel che viene loro richiesto dai contratti collettivi. E anche dal buongusto e dal senso del pudore.
Uno dei casi più recenti, e certamente tra i più clamorosi in quanto a eco mediatica, è quello dell’avvocato-professore vibonese che, mentre per una scuola di Lodi era in malattia – per cinque lunghi anni pare non si sia proprio fatto vedere – presenziava a moltissime cause tra il Tribunale di Vibo e il Tar di Catanzaro. Per non parlare dell’inchiesta che ha rivelato che all’Asp di Catanzaro c’era chi, secondo l’ipotesi accusatoria, si finanziava una trasferta in Spagna (con famiglia) coi fondi Ue destinati a progetti di assistenza per anziani. È sempre giusto ricordare che in questi casi, come negli altri che qui si citeranno, vale la presunzione di innocenza fino a quando non arriveranno le condanne definitive, ma è comunque difficile per i giornalisti non notare e far notare che, per esempio, l’avvocato-docente vibonese della (presunta) furberia era stato sindaco del suo paese (in quota ex Pci-Pds) per quasi un decennio, nonché tra i promotori della sezione locale di Libera.
Si tratta di circostanze che non stupiscono, specie nella terra in cui il paradosso diventa prassi, abitudine consolidata come pare fosse al Comune di San Vincenzo La Costa o all’Asp di Cosenza fin quando, nel maggio scorso, non è arrivato l’intervento della Procura a rivelare altri episodi controversi finiti nelle aule di Tribunale. Come quello degli uffici sanitari di Rogliano in cui, a febbraio, gli inquirenti hanno registrato 725 episodi di assenteismo per un ammanco di circa 1500 ore, monitorando e denunciando 48 dipendenti sui 58 in servizio. Molti di loro sono tornati al alle loro mansioni dopo pochi giorni, sebbene secondo la Procura alcuni, anziché lavorare, andassero a giocare alle slot machine .
Si tratta di comportamenti, anzi costumi, che sono diventati sempre più diffusi per chi si diletta a leggere i resoconti delle inchieste giudiziarie che negli ultimi anni hanno riguardato gli enti pubblici calabresi, dalle operazioni “Time out” (Comune di Pedace) e “Torno subito” 1 e 2 (Comune di Reggio) fino alle indagini più recenti, solo per fare qualche esempio. Di certo c’è che questo genere di accuse non preoccupa la Regione Calabria, che ha designato in ruoli di responsabilità – come la sorveglianza sanitaria dei dipendenti regionali o la guida del Parco delle Serre (ne abbiamo scritto qui) – anche funzionari già coinvolti in inchieste simili.
Al di là dei singoli episodi, però, ciò che stupisce è che nell’era del precariato perenne spacciato per flessibilità, in molti sembrino non comprendere quanto sia ormai raro e prezioso un posto di lavoro pubblico e a tempo indeterminato. Evidentemente non abbastanza per chi alla fortuna o al merito deve per forza aggiungere la pretesa di non fare nemmeno quel poco per cui si è pagati ogni mese.
La furberia, si dirà, va contrastata esattamente quanto il pregiudizio, ché il leggendario vigile urbano che andava a timbrare in mutande era – per dire – di Sanremo e non di Mosorrofa. Giusto. Ma nessuno può farlo senza prima ammettere che noialtri, calabresi e italiani, ci mettiamo proprio d’impegno per alimentare gli stereotipi. Senza dimenticare che quando il “furbetto” viene scoperto e – per dirla con Fantozzi – crocefisso nella “sala mensa” dei processi mediatici, il primo commento quasi sempre non riguarda quello che i furbetti hanno fatto ma, più prosaicamente, «come hanno fatto a farsi beccare…».
Sergio Pelaia
s.pelaia@corrierecal.it
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