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La fatwa contro l’archeologa che ha salvato Punta Scifo

COSENZA L’archeologa che ha portato alla luce lo scandalo di Punta Scifo non deve più lavorare. La fatwa, firmata dal soprintendente Mario Pagano, circola da settimane negli uffici preposti alla tu…

Pubblicato il: 04/09/2017 – 11:17
La fatwa contro l’archeologa che ha salvato Punta Scifo

COSENZA L’archeologa che ha portato alla luce lo scandalo di Punta Scifo non deve più lavorare. La fatwa, firmata dal soprintendente Mario Pagano, circola da settimane negli uffici preposti alla tutela delle belle arti e del paesaggio. Riguarda Margherita Corrado. Cosa ha fatto di così grave, qual è la sua colpa? Corrado – la battaglia è finita sulle testate nazionali e sulla scrivania del procuratore di Crotone – si è spesa per salvare un pezzo di costa che rischiava di diventare una colata di cemento. Mentre lo faceva, è stata querelata dal “capo”. Il procedimento penale per diffamazione è aperto alla Procura di Torre Annunziata. E tanto basta, secondo il decreto diretto a tutti i tecnici della Soprintendenza e ai funzionari archeologi, per renderla incompatibile con qualsiasi lavoro la cui vigilanza spetti agli uffici cosentini. Un editto dalle conseguenze potenzialmente pesantissime per la professionista. Specie se si pensa alle sue premesse e cioè all’impegno speso dall’archeologa per salvare uno degli ultimi angoli incontaminati della Calabria.

A PUNTA SCIFO A Punta Scifo, con la scusa di realizzare un agriturismo, le betoniere avevano fatto breccia nel paesaggio. Il cantiere del Marine Park Village aveva preso forma nell’indifferenza generale: le coltivazioni – che, da progetto, avrebbero giustificato la nascita delle strutture edilizie “collaterali” – non c’erano. Si vedevano benissimo, invece, le piazzole sulle quali sarebbero stati impiantati i bungalow, lo scheletro del ristorante, le buche scavate per ospitare le due piscine. Uno scempio, insomma, con vista sullo Jonio crotonese. In teoria, accanto all’impresa agricola dei fratelli Armando e Salvatore Scalise (che non hanno da tempo il “patentino” di imprenditori agricoli), sarebbero dovute sorgere strutture ricettive abilitate a ospitare tre persone a ettaro. Il risultato, nella Calabria che si gira dall’altra parte, è un progetto per 79 bungalow da tre posti letto ciascuno (non proprio tre persone a ettaro). L’idea imprenditoriale viaggia a gonfie vele anche grazie ai ritardi della Soprintendenza per i Beni architettonici e il Paesaggio. Poi arriva il decreto del gip Michele Ciociola che sequestra il cantiere e spiega che è «già stato realizzato un irreversibile stupro di uno dei più rilevanti e protetti tratti di costa ricadenti nel Comune pitagorico».

I GUAI DEL SOPRINTENDENTE Chissà come sarebbe finita senza l’impegno di Margherita Corrado e degli ambientalisti. L’archeologa è autrice di una pubblicazione disponibile in rete, un pdf che racchiude una storia di ordinario scempio calabro. Fatta di connivenze e inerzie. È un “memoriale a uso degli onesti” intitolato “A Capo Colonna lo Stato non esiste”. Contiene tutti i passaggi tecnici della vicenda, le planimetrie dell’area, le foto splendide di quel tratto di costa, poi “sporcato” dalle piazzole in cemento e dai terrazzamenti del Marine Park Village. Un lavoro apprezzato, probabilmente, anche dalla Procura di Crotone. Che, per lo sfregio di Punta Scifo, ha chiesto il rinvio a giudizio di sei persone. Ci sono i due Scalise, il direttore dei lavori del villaggio, due tecnici comunali. E anche il soprintendente archeologico di Crotone, Catanzaro e Cosenza, Mario Pagano, accusato di falso per aver inviato al Ministero una relazione nella quale dichiarava che «ormai i 79 bungalow erano già stati realizzati» quando invece non esisteva nessuna costruzione. Già, Pagano: l’archeologa solleva lo scandalo, lui finisce nei guai, la querela e impone ai suoi tecnici di non farla più lavorare con la Soprintendenza. Certi cerchi si chiudono (un po’ troppo) facilmente.

Pablo Petrasso
p.petrasso@corrierecal.it

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