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Un Paese che produce solo clientele

Ci sono molte cose che non vanno nel nostro Paese e non si fa nulla per cambiarle. E dire che una nuova interpretazione, se non una diversa lettura, potrebbe apportare migliorie al sistema. Una per…

Pubblicato il: 11/09/2017 – 6:58

Ci sono molte cose che non vanno nel nostro Paese e non si fa nulla per cambiarle. E dire che una nuova interpretazione, se non una diversa lettura, potrebbe apportare migliorie al sistema. 
Una per tutte: se si intendesse che il fallimento andrebbe interpretato come punto di partenza di qualcos’altro e non d’arrivo, non solo sarebbe possibile evitare talune speculazioni, quanto si aprirebbero scenari nuovi che, vedi la Calabria, nell’immaginario collettivo sono considerati come una fucina del fare ma per produrre bluff. Con riguardo alla nostra regione, la sensazione che si riporta dalla lettura quotidiana, specialmente delle cose politiche, è quella di una terra benedetta da Dio, ma abbandonata dall’uomo. Spesso chi porta alla cinta le chiavi del potere si lascia andare a facili dichiarazioni. Parla di una regione nella quale complessivamente tutto va bene o in cui, probabilmente, qualcosa potrebbe andare meglio, dove si sta lavorando per raggiungere gli standard delle altre regioni. Salvo a verificare nel tempo che quel tutto o è stato realizzato il più delle volte male, oppure non è stato proprio fatto. 
Qualcuno definisce la pratica del ”lo abbiamo fatto” come la teoria dell’annuncio, dell’effetto mediatico che serve a tamponare l’immediato ma che a distanza di tempo si appalesa per ciò che è: una bufala! Tanto il tempo riesce a rimarginare quasi sempre qualsiasi ferita.
Un sistema reso possibile da concause che condiziona da sempre la vita sociale della Calabria a cominciare dal fatto che una consistente fetta di popolazione non si informa più attraverso i canali tradizionali ed è anche esclusa da quel servizio pubblico sempre più impegnato a servire ben determinate aree della regione e a non rendere omogenea la presenza di altri territori.
Informazione a parte, c’è da dire pure che in questo estremo lembo dello Stivale la politica manifesta spesso tutti i limiti di cui soffre per l’incapacità di assumersi responsabilmente le prerogative di governo intraprendendo iniziative adeguate a dare risposte ai bisogni della gente; dimostrando di essere capace ad arginare la povertà e operando concretamente per favorire il lavoro che, a queste latitudini, manca non solo tra i giovani ma anche tra coloro che, avendolo perso, si pongono sul mercato ma non riescono più a ricollocarsi perché non lo trovano.
In una realtà così strutturata è possibile che, in presenza di notizie per fortuna episodiche, ogni reazione sia giustificata specie quando si apprende di incarichi assegnati ad personam dagli enti pubblici a soggetti che, fatti passare per tecnici, spesso non hanno le capacità necessarie per assolverli. Perché, dunque, non pretendere che per qualsiasi incarico venga effettuato uno screening tra il personale e, constatata la mancanza di referenzialità, non si procede con bandi pubblici elencando la professionalità richiesta (evitando le chiamate dirette che quasi sempre nascondono fatti clientelari) la durata del rapporto, lo stipendio al lordo delle ritenute di legge che, comunque, non può superare quello di un parigrado già in organico? Ma sappiamo tutti che così non è perché fa comodo che non lo sia e si continuano a ratificare situazioni costose che il più delle volte non corrispondono alle figure professionali richieste e che costano alla società un mucchio di euro. E’ naturale che i calabresi ingoiano amaro in presenza di iniziative di questo tipo e che si allontanano sempre più dalla politica andando ad infoltire la schiera del non voto.
L’errore è che spesso l’incarico di governo viene considerato più come un mandato imperativo che come missione democratica. Il che, se da un lato sottrae da responsabilità nei confronti degli elettori, dall’altro alimenta il sospetto che si agisce aggirando le regole della buona amministrazione che al primo posto ha l’interesse pubblico secondo il cosiddetto metodo dell’efficacia e dell’efficienza, cui si aggiungerebbero i criteri dell’economicità dell’iniziativa e della rapidità. Non è prevista tra i requisiti l’appartenenza politica che, invece, sappiamo che spesso può rappresentare un serio elemento discriminatorio.
È pur vero che il politico che ha responsabilità di governo ha anche il diritto di stabilire quale sia la soluzione più consona al migliore funzionamento di un servizio, ma è altrettanto incontrovertibile che in democrazia i cittadini abbiano il diritto di pretendere di essere informati e, se del caso, prima, durante e dopo ogni iniziativa: in che cosa consiste il progetto per il quale si chiede l’assunzione di personale, sia pure a tempo determinato, che tipo di benefici sono previsti per la collettività dal progetto medesimo e quanto pesa sull’economia dell’ufficio e, quindi, di ciascun contribuente. Ciò perché gli esempi che provengono dalla pubblica amministrazione ci hanno forgiati al sospetto, ad essere scettici quando si tratta di incarichi che il più delle volte risultano inutili.
Un modo di fare che un tempo, quando i valori della società erano diversi, si chiamava malcostume, che è vecchio tanto quanto è vecchio il Paese, che non produce nulla se non clientela effimera e che serve solo per garantire lauti appannaggi a pochi “fortunati”.

 

*giornalista

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