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Giovannino Russo, l’ultimo meridionalista

Quando cominciai a studiare il Sud e la questione meridionale (quasi una vita fa) il nome e le opere di Giovannino Russo erano per me una leggenda, un riferimento ineludibile, un modello per quanti…

Pubblicato il: 27/09/2017 – 13:25
Giovannino Russo, l’ultimo meridionalista

Quando cominciai a studiare il Sud e la questione meridionale (quasi una vita fa) il nome e le opere di Giovannino Russo erano per me una leggenda, un riferimento ineludibile, un modello per quanti volevano conoscere le regioni meridionali e pensavano al riscatto dei suoi abitanti. “Baroni e contadini” del 1955 resta un esempio di libro inchiesta, esplorazione, riflessione, un romanzo perfetto. Giovannino frequentava studiosi, scrittori, artisti del Sud in una Roma che accoglieva i maggiori intellettuali meridionali. Aveva un rapporto intenso con Alvaro, di cui scriveva e parlava, nei suoi interminabili e avvincenti racconti, con venerazione. “I nipotini di Lombroso” (1992), nel quale vedeva in anticipo come al razzismo leghista antimeridionale il Sud poteva rispondere con retoriche localistiche e neoborboniche, fu molto importante per il mio “La razza maledetta. Origini del pregiudizio antimeridionale” (1993).

Per molti versi vorrei descrivere Russo, con il suo lungo e intenso percorso, come un “ultimo meridionalista”, e adopero questa definizione in senso alto e nobile, cercando di indicare almeno alcuni aspetti di questa sua fedeltà, adesione, dichiarata appartenenza alla sua terra – unita a una lucida visione del Sud del passato e di quello che è diventato, delle innumerevoli trasformazioni che ha conosciuto. Non un ultimo meridionalista che, come l’ultimo dei mohicani, intende, con dignità e nobiltà, assistere alla fine irreversibile del suo mondo. Ma come lucido interprete dei mutamenti, anche quando ormai la questione meridionale sembrerebbe svanita e il Sud (per convergenti dichiarazioni di “leghisti” e di “sudisti”, di “modernisti estremi” e di “meridionalisti” rituali e angusti) non esisterebbe più non solo come “problema”, nella sua plurale diversità, ma nemmeno come “luogo” aperto sul mondo e non separato dal resto di Europa e del Mediterraneo.

Nella prefazione all’ultima edizione di “Baroni e contadini”, Russo segnala, quasi prendendo atto di ripetute sconfitte, di mancato ascolto, l’urgenza e la necessità di un profondo rinnovamento del Mezzogiorno. Nel 1993, in coincidenza con l’affermazione elettorale della Lega,  le convinzioni razziste del Carroccio vengono allo scoperto, illustrate dai suoi esponenti politici, tradotti in slogan duri, fastidiosi, efficaci. Mi sono occupato, allora, delle tendenze xenofobe che si traducevano in slogan contro il Sud e i meridionali e i calabresi.  La “questione meridionale”, che fin dall’unificazione nazionale e soprattutto nel secondo dopoguerra, era stata al centro, almeno a parole, dell’attenzione politica nazionale, aveva ceduto lentamente il passo a una vera, ma anche inventata e retorica, «questione settentrionale», come ricorda anche Russo nei suoi scritti. Il profondo Nord occultava o colpevolizzava quel profondo Sud descritto, narrato, visitato da generazioni di meridionalisti e anche da studiosi e intellettuali del Nord. L’identificazione Milano Italia di fatto relegava in una posizione di marginalità e sotto accusa il Sud nel suo insieme. La “questione settentrionale”: il problema è che essa veniva individuata ed enfatizzata, anche da parte dei media e di un giornalismo “progressista”, in contrapposizione alla “questione meridionale”. Bossi e Miglio parlavano apertamente di separatismo e di indipendenza del Nord, e attualizzavano le argomentazioni dell’antropologia positivista. Non era il federalismo sognato da uomini illuminati del Nord e del Sud che volevano unire, ma era la “bestemmia separatista” contro cui aveva inveito Giustino Fortunato.

Uno dei rischi era che alle tendenze scissioniste del Nord, il Sud potesse rispondere, come ricordava Russo, con mitizzazioni e rimpianti filoborbonici, scendendo sul terreno «separatista» prediletto dai leghisti. Isaia Sales temeva che in Italia ci si dividesse in «leghisti» e «sudisti». Il “romanzo” dell’identità lombarda, che peraltro non negava l’identità del Sud, anzi la alimentava strumentalmente, la imbalsamava e la mummificava, comportava il rischio di una risposta angusta e localistica e quindi quello di affermare, per ragioni difensive, un concetto di identità chiusa, statica, monocromatica. Prosperano libri generici sull’identità del Sud, visto in una sua unitarietà, in cui un noi veniva opposto agli altri. La giusta rivendicazione e affermazione di sé spesso si traduceva in forme di auotassoluzione. Nasce un genere – giornalistico e letterario – lamentoso, rivendicazionista, tendente a negare le responsabilità del Sud e anche a mettere in discussione lo stesso processo unitario e l’apporto del Risorgimento meridionale e dell’illuminismo democratico e dello stesso meridionalismo. Di fronte a questi rischi abbiamo bisogno di memorie più che mai, che è bene ricordare nel periodo in cui la stessa idea d’Italia si è frantumata sotto i colpi della corruzione, delle mafie, della malapolitica, dei leghismi, dei localismi, con inquietanti aspetti xenofobici, della “modernizzazione” che ha comportato distruzione di paesaggio, devastazione delle bellezze, degrado antropologico, senza creare nulla di veramente nuovo, che portasse a costruire di quell’altro Sud che sognavano i meridionali e i meridionalisti.

Il ritorno alla questione meridionale per Russo è ritorno a un meridionalismo critico, illuminato, legato ai luoghi e alle persone. Le inchieste e le analisi dei meridionalisti erano frutto di ricerche continue, di viaggi di verifiche, di soste prolungate, di letture raffinate: il nuovo Sud descritto da tanto giornalismo mediatico è stato frutto di osservazioni superficiali, rapide, generiche, di maniera. Una letteratura insicura che oscilla tra descrizione esasperata dei mali (vedi la fortuna di tanta ripetitiva saggistica sulla ‘ndrangheta, che spesso viene costruita sui “sentito dire”) o segnalazione delle positività e delle grandi risorse del Sud. Un’identità angusta, difensiva, retorica. La ricerca esasperata di positività cos’altro è se non l’ammissione di un’estrema negatività? E la riduzione di tutto a male e a inferno cosa è se non l’accettazione dello stereotipo della razza maledetta?

Come scrive Goffredo Fofi, le qualità fondamentali di Russo sono quelle di «chi sa vedere, curioso di scoprire ragioni ed affetti anche più nascosti, e di chi sa raccontare. Senza sparar condanne, senza chiamarsi fuori dal gioco». Con la sua curiosità e la capacità di vedere e di capire, nell’onestà dello sguardo e del giudizio sul suo lavoro, Fofi avvicina a Levi e a Flaiano, a quel mondo letterario che Russo descrive in un suo bellissimo libro, “Con Flaiano e Fellini a via Veneto”. L’altro merito di Russo, rispetto anche a tanto frettoloso giornalismo, con vocazioni revisioniste, separatiste, rivendicazioniste, è che la sua visione resta sempre ancorata all’idea di nazione, resta inquadrata in un cornice unitaria. L’Italia e l’Europa, con tutti i loro guasti, con tutte le violenze imposte al Sud, restano un orizzonte ineludibile di riferimento.

Nei primi anni Novanta ebbi la fortuna e il privilegio di incontrarlo, conoscerlo, frequentarlo a Roma, ad Acri, a Palmi, in tanti altri luoghi e diventammo amici. Ci sentivamo spesso e molte volte andavo nella sua casa di via del Plebiscito, dove mi mostrava i suoi appunti, gli oggetti acquistati e che parlavano della vita del Sud e, nel periodo di Natale, il presepe che, puntualmente, costruiva e mostrava con orgoglio. Era una persona garbata, affettuosa, umile e con dignità aveva affrontato la perdita di un giovane figlio, brillante filosofo e docente all’Unical. Mi telefonava ad ogni uscita di un mio libro e, poi, puntualmente arrivava, a sorpresa, come un dono, una sua recensione, sempre attenta, bella, profonda. Quando gli chiedevo se avesse voglia di parlare di un mio libro, non solo accettava, ma mi ringraziava e si commuoveva come un bambino. Ricordo una presentazione di pochi anni fa a Roma, assieme a un’altra indimenticabile e grande scrittrice e amante del Sud (con noi Salvatore Pierm
arini ed altri amici), Adele Cambria, e una al Salone del Libro di Torino con Margherita Oggero e Anna Rosa Macrì. Si presentava il mio “Il patriota e la maestra”, che Giovannino recensì con grande entusiasmo. Il dono più bello e commovente da lui ricevuto fu quando mi chiese, con grande discrezione e quasi timidezza, se ero disponibile a presentargli una raccolta di scritti sulla Calabria (pubblicata da Rubbettino). Come scrive Corrado Stajano, Giovannino non demordeva, era tenace, non si rassegnava e volle pubblicare “Reportage sulla Calabria”, che «rende con limpidezza quel che è accaduto in quell’infelice regione» (Stajano). Mi considerava l’intellettuale «più adatto», «continuatore della grande tradizione meridionalista» (riporto con orgoglio e con disagio le sue parole) in grado di presentare, contestualizzare e commentare i suoi scritti e di segnalare le grandi trasformazioni intervenute dal periodo in cui aveva pubblicato i suoi reportage (dove torna come nume tutelare Corrado Alvaro). E ricordo la sua telefonata commossa, emozionata, grata quando lesse quanto ero riuscito a scrivere di quel libro e sulla sua opera. Negli ultimi tempi lo sentivo più raramente – praticamente non camminava – e tramite una sua compagna e amica che gli stava vicino. Rinviavo, per timore di disturbarlo o di avere brutte notizie, una telefonata: negli ultimi giorni avvertivo il bisogno urgente di sentirlo o di avere notizie. Non ho fatto in tempo a ritrovare il numero del suo cellulare e quello della nostra amica (cancellati come capita spesso). Apprendo, da un sms di Alberto Saibene, della sua scomparsa. Mi siedo, muto e triste, scrivo di getto questo ricordo, e penso, con dolore e con amore, con gratitudine, all’ultimo dei meridionalisti, a un grande giornalista e scrittore, a una persona perbene, amabile, anche ironica e divertente, che mi ha dato tanto con i libri e con la sua stima e il suo affetto. 

Ciao Giovannino.

*Antropologo e scrittore

 

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