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«Reddito di inclusione sociale? Meglio il (reddito di) lavoro»

Complessivamente sono 75.885. La Calabria, insieme alla Sicilia e alla Campania, è la regione che, nel corso dell’anno 2017, conta più domande di «reddito di inclusione sociale». Cos’è? È una prest…

Pubblicato il: 08/01/2018 – 12:41
«Reddito di inclusione sociale? Meglio il (reddito di) lavoro»

Complessivamente sono 75.885. La Calabria, insieme alla Sicilia e alla Campania, è la regione che, nel corso dell’anno 2017, conta più domande di «reddito di inclusione sociale». Cos’è? È una prestazione universale di contrasto alla povertà, che prende il via dal 1° gennaio 2018, riconosciuta ai nuclei familiari, sulla base di determinati indicatori, all’esito di una valutazione complessa del grado di bisogno. La prestazione consiste in un beneficio economico, che viene erogato mensilmente attraverso una carta di pagamento elettronico (Carta REI), e in un progetto personalizzato di attivazione e di inclusione sociale e lavorativa, finalizzato all’affrancamento dalla condizione di bisogno, che richiede l’adesione della persona interessata dalla misura di sostegno.   
Bene la prestazione economica mensile. Ancora meglio il progetto personalizzato di inclusione sociale e lavorativa. Non la si utilizzi, la misura di sostegno, come uno “stabilizzatore” della povertà, ma come leva per allargare la base occupazionale. 
Livelli allarmanti sta raggiungendo la povertà. Vi sprofonda larga fetta del ceto medio. Quanto più si allarga la povertà tanto più diventa tema “politicamente rilevante”. E, intanto, il 4 marzo si avvicina. Quindi, giù con «reddito di base», «reddito minimo», «reddito di cittadinanza», «reddito universale», «reddito di inserimento», «reddito di inclusione». Tante le etichette. Molta la confusione.  
Occorre, allora, chiarire. Il dibattito è molto più profondo e articolato di quanto lascino trasparire i battibecchi politici, e occorrerà ritornarci.
Dietro queste bandiere, agitate in modo particolare in campagna elettorale, si cela un’operazione culturale molto sottile. Operazione paradossalmente veicolata dal pensiero neo-liberista, che, attraverso l’idea del «reddito di base», variamente denominato, vuole separare il reddito dal lavoro. Considera cioè il reddito garantito una forma di “risarcimento” da parte di una società che non riesce a garantire il lavoro. È la tesi di Guy Standing: il destino delle società occidentali è di essere «società senza lavoro». 
La disoccupazione è funzionale al sistema economico, che, dall’ultimo ventennio del Novecento, ha reagito e si è imposto al modello keynesiano. E la ragione, per semplificare, è presto detta. E la diciamo con Marx: i disoccupati costituiscono. Oggi significa che vengono “impiegati” dal sistema per fare concorrenza agli occupati: più è alta la domanda di lavoro (la disoccupazione), più è basso il potere contrattuale dei lavoratori (se vuoi lavorare, devi accettare salari più bassi e minori garanzie). È il ricatto dell’attuale sistema capitalistico, che, attraverso politiche di bassi salari, minori garanzie, ristrutturazioni industriali, finanziarizzazione dell’economia, divora occupazione. Per di più, in un contesto in cui sul mercato del lavoro soffiano i venti di una nuova filosofia. Per semplificare, è una filosofia che poggia su due gambe. Rendere più facile il licenziamento: è la prima gamba. Migliorare l’occupabilità o la cosiddetta flexsecurity (percorso di ricollocazione): è la seconda. Delle due è quest’ultima gamba che cammina male. Con un saldo negativo per l’occupazione.    
In realtà, l’obiettivo della «piena occupazione» non è l’obiettivo del modello liberista, e, quindi, dell’attuale sistema economico. È l’obiettivo dello Stato. “Deve” essere l’obiettivo dello Stato. Da perseguire attraverso una fiscalità progressiva, che favorisca consumi, e politiche di investimenti pubblici, che mettano in moto l’economia. Ampliando così base imponibile e alimentando gettito fiscale.
Come egregiamente ha scritto Luciano Gallino, tra reddito e lavoro c’è un legame che non si può e non si deve spezzare. 
Se è così, come crediamo, il reddito non è né il risarcimento di una società che non garantisce lavoro, né la mano tesa del capitalismo compassionevole. Il reddito è lavoro. È dal lavoro che viene e deve venire il reddito. Perché è nel lavoro che la persona trova identità, riconoscimento, realizzazione. È attraverso il lavoro che la persona guarda a se stessa e al mondo che la circonda. È attraverso il lavoro che la persona entra in relazione con gli altri, esprimendo il suo contributo alla vita sociale, economica, e così la sua «effettiva partecipazione» alla comunità politica (art. 3 Cost.). Non è un caso se il carattere «democratico» della nostra Repubblica è scritto sul «lavoro» (art. 1 Cost.). Sul lavoro l’hanno voluto imprimere i nostri Costituenti. Il lavoro non è «merce». È dignità. 
E, allora, più che di reddito, è di lavoro che hanno bisogno quanti domandano il beneficio previsto dal d.lgs. n. 147 del 2017. 
Nell’augurare un buon 2018, di lavoro ha scritto su queste colonne il governatore Oliverio: «Il diritto ad un lavoro stabile, in particolare in una regione come la nostra segnata dal grave fenomeno della disoccupazione, richiede una forte iniziativa unitaria e una chiara assunzione di responsabilità». E di lavoro ha parlato il Presidente della Repubblica nel tradizionale messaggio di fine anno. Richiamando (la politica) al dovere di formulare «proposte realistiche e concrete», il Presidente ha detto che «il lavoro resta la prima, e la più grave, questione sociale. Anzitutto per i giovani, ma non soltanto per loro». 
Per concludere. Se il reddito di inclusione accompagna chi lo percepisce in un percorso di inclusione sociale e lavorativa realistico e concreto, bene. In caso contrario, è il pannicello caldo sulla testa di chi ha febbre da cavallo.

*docente dell’università “Mediterranea” di Reggio Calabria 

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