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«Il “licenziamento” della Roccisano in tempi di post-verità»

È un fatto grave che l’assessore al Lavoro e alle Politiche sociali sia stata “licenziata” dal governatore Oliverio. Grave perché interessa un assessorato particolarmente importante e perché si con…

Pubblicato il: 10/01/2018 – 11:54
«Il “licenziamento” della Roccisano in tempi di post-verità»

È un fatto grave che l’assessore al Lavoro e alle Politiche sociali sia stata “licenziata” dal governatore Oliverio. Grave perché interessa un assessorato particolarmente importante e perché si consuma in una regione dove il tasso di disoccupazione raggiunge livelli allarmanti. Al di là delle ermetiche dichiarazioni con le quali si sottolinea «l’esigenza di rilanciare l’azione di governo in un settore particolarmente delicato della vita della regione», resta da capire perché sia stata licenziata. Se ha governato male, è un fatto grave, perché  la Calabria non può permettersi, in un settore chiave come il lavoro, due anni di malgoverno. Se ha governato bene, è un fatto grave che il Governatore l’abbia “licenziata”, interrompendo così continuità nell’azione di governo. In entrambi i casi i calabresi hanno diritto di sapere la verità.  
Ma questo è un tema che porta a considerazioni più generali. Perché tra verità e politica non corrono buoni rapporti. A parte gli antichi filosofi e Machiavelli, lo pensava Hannah Arendt, che vi ha dedicato un notissimo saggio: “Verità e politica”, in cui scriveva che «nessuno ha mai dubitato del fatto che verità e politica siano in rapporti piuttosto cattivi l’una con l’altra e nessuno, che io sappia, ha mai annoverato la sincerità tra le virtù politiche». 
D’altronde, oggi viviamo tempi che lo confermano ampiamente. Tempi in cui l’Oxford Dictionaries ha eletto il termine «post-truth» («post-verità») «parola dell’anno 2016». Post-verità è termine che allude a circostanze tali da rendere i «fatti oggettivi» meno influenti delle «emozioni» e delle «credenze personali» nella formazione dell’opinione pubblica. 
Ma c’è un diritto dell’opinione pubblica di sapere la verità? Certamente sì. La risposta è ovvia. Ma la domanda no. Non è un caso se la domanda  percorra tutta la storia del pensiero umano, e che esploda oggi in forme nuove in tutta la sua antica drammaticità. 
Sono tempi, i nostri, nei quali l’opinione pubblica si muove in un mondo nuovo: il mondo della comunicazione digitale. Dove circolano fatti, notizie, informazione, opinioni, e, insieme, disinformazione, mistificazione, inganno, menzogna. In un quadro in cui l’opinione pubblica è più debole, perché il «cittadino collettivo» dei grandi sistemi di pensiero condivisi ha lasciato il posto al «cittadino individuo». Un cittadino che si trova, perciò, a navigare da solo nel mare procelloso della «verità», senza che la lettura della rotta possa essere filtrata all’interno di un pensiero razionale “condiviso” e sostenuta da processi “condivisi” di partecipazione e di costruzione sociale di un discorso pubblico, garantito dai corpi intermedi e dalle (e attraverso le) istituzioni democratiche. 
La domanda di verità è la stessa, ma nuovi sono il contesto storico-ideologico e le forme di comunicazione sociale. E nuove le insidie per l’opinione pubblica, che assai debolmente si muove su un terreno insidioso. 
Uno scenario fluido, dunque. Nel quale, cadute le grandi appartenenze politico-ideologiche, possono svolgere un ruolo importante gli intellettuali: quello di stabilire il valore e la verità dei fatti. Il prof. Ivano Dionigi, nel corso del conferimento della laurea honoris causa al card. Ravasi nell’Università Mediterranea di Reggio Calabria (settembre 2017), ha detto che l’Università è una istituzione che fa «professione di verità». E il compito che spetta alla comunità di coloro che la abitano è quello di «dire pubblicamente tutto ciò che una ricerca, un sapere e un pensiero esigono» (Derrida). Non è compito degli intellettuali, per riprendere l’espressione di Dionigi, di scodinzolare alla corte del principe o di dare la caccia a Consigli di Amministrazione. No. Non è loro compito, perché gli intellettuali sono quelli che «hanno il privilegio di dare del tu al pensiero».  
È grossa la responsabilità degli intellettuali. Perché gli intellettuali sono quelli che, come scrive Chomsky (“Linguaggio e libertà” 1987), hanno la necessaria preparazione, gli strumenti, il tempo per analizzare l’operato dei governi, stabilirne le cause, le motivazioni, i moventi riposti, denunciarne le menzogne. In una parola, hanno il “tempo” di farlo. Il tempo di esercitare «la forza che deriva dalla libertà politica, dall’accesso alle informazioni e dalla libertà di parola». Che è privilegio di pochi.
Tornando alla vicenda Roccisano, è chiaro che i calabresi hanno diritto di sapere come stiano effettivamente le cose; di conoscere le ragioni che hanno indotto il Governatore ad un passaggio così importante; di conoscere le ragioni per le quali l’assessore Roccisano rivendica la sua buona azione di governo. Si tratta semplicemente di capire. Di capire fatti importanti in un momento in cui i cittadini sono chiamati alle urne in condizioni difficili. 
E chi, come gli intellettuali, ha maggiori strumenti e più ampio accesso alle informazioni ha il dovere civile di esercitare pubblicamente la ragione per vagliare i fatti, separarli dalle mistificazioni, rigettare le menzogne. Di formare e orientare la pubblica opinione. È questo il ruolo dello studioso: parlare al di fuori della sua «conventicola», direbbe Kant. Nella consapevolezza – non lo escludiamo affatto – che, in politica, anche mezzi discutibili (ma vi è un limite a tutto), possono attingere obiettivi meritevoli. Purché mezzi e fini siano trasparenti all’opinione pubblica. 

*docente dell’università “Mediterranea”

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