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Appunti per un naufragio, un promemoria per il futuro

Esistono parole, frasi, dialoghi, situazioni, immagini dei libri intensi e sinceri che, a volte, ti restituiscono il senso dell’intera opera, delle sue ragioni, dal perché, in un certo senso, non s…

Pubblicato il: 16/01/2018 – 12:27
Appunti per un naufragio, un promemoria per il futuro

Esistono parole, frasi, dialoghi, situazioni, immagini dei libri intensi e sinceri che, a volte, ti restituiscono il senso dell’intera opera, delle sue ragioni, dal perché, in un certo senso, non siamo noi a scrivere le storie perché sono le storie a venirti incontro, a bussare alla tua mente e al tuo corpo, a chiedere visibilità. Davidù, il protagonista e io narrante di Appunti per un naufragio (Sellerio, 2017) di Davide Enia (che nei prossimi giorni terrà a Soriano un seminario sul rapporto tra testimonianza orale e parola a scritta), si è recato a Lampedusa, ospite di due amici che vivono nell’isola, per cercare di capire cosa stia, davvero, accadendo in un’isola mondo, che da anni ormai è il luogo metafora di un’umanità che fugge senza meta precisa, senza direzione certa, affrontando il mare aperto e la morte.
Il viaggio a Lampedusa per ascoltare (come direbbe Jung) il «lamento dei morti» (così rumoroso e senza quiete perché quei morti non hanno un nome, una sepoltura, una foto, in grado almeno di rendere possibile il ricordo) è per Davidù anche una sorta di nóstos dolente e inatteso, un tuffo nel tempo dell’infanzia, quando d’estate, con i genitori, lo zio Peppe, fratello del padre, i suoi fratelli andava a passare le vacanze in quella che all’epoca era un luogo incantato (e non ancora dolente) del Mediterraneo. Per molti aspetti, questi “appunti” di Enia restituiscono “frammenti” (sempre coerenti con la storia raccontata) sull’infanzia e sui ricordi, sul mare e sul sentimento del mare, sul senso di appartenenza a una Sicilia, di cui Enia conosce e descrive parole, miti, pratiche silenzi, colori, ritmi, camminate, lentezze, movenze, linguaggio del corpo e dei gesti. Un libro di ricerca del tempo passato, proprio mentre il Tempo sembra accadere senza senso.
L’immagine emblematica a cui facevo riferimento è quella a cui Davidù ricorda lo zio Peppe che gli insegnava la pesca del polpo fatta con lo scopello. «Il momento polpo è quando una storia, se vuole ti viene incontro, e non c’è bisogno di trafiggerla, o di scagliarcisi contro. È necessario starle vicino, quello sì, rispettarne i tempi, ed essere pronti ad accoglierla con ogni fibra di se stessi. Tutto qui».


(La copertina del libro di Enia, con foto di Francesco Enia)

È la sincerità, che nasce da un bisogno di capire e raccontare, senza aggredire e forzare la realtà, la pazienza e la vocazione ad ascoltare, capire, testimoniare, a rendere prezioso un libro che riesce a restituirci la profondità, le contraddizioni, le complessità di un luogo-tempo, geografico e simbolico, segnato da grandi mutamenti, arrivi, non arrivi, attraversamenti, passaggi. Là dove la morte sembra trionfare sul corpo di chi soccombe e non ce la fa, ma anche nell’anima chi resta, accudisce, soccorre, cura, seppellisce e ricorda, sono la pietas e la misericordia ad affermare le ragioni delle sue bellezze e, nonostante tutto, delle sue necessità. Non ci sono tesi da mostrare, non ci sono invettive, imprecazioni, attribuzioni di colpe, accuse di responsabilità, analisi socio-politiche nel romanzo di Enia. Prevale uno sguardo dolente, penetrante, sofferto – che non diventa mai lamentela o rassegnazione – su vita e morte di chi “attraversa” (quasi per fondare un mondo nuovo). Un’urgenza interiore di anticipare storie, vissuti, sentimenti, voci di quanti, superstiti e sopravvissuti, tra anni useranno «le parole esatte per descrivere cosa significa approdare sulla terraferma, dopo essere scappati dalla guerra e dalla miseria, inseguendo il sogno di una vita migliore. E saranno loro a spiegarci cosa è diventata l’Europa e a mostrarci, come uno specchio, chi siamo diventati noi». Nascerà una nuova antropologia del sé, del noi, degli altri, di noi-altri, degli altri-noi con questa storia lunga e imprevedibile di arrivi, fughe, esodi, passaggi.
Intanto, come Enia suggerisce: «Nascerà una epica di Lampedusa. Sono centinaia di migliaia le persone transitate dall’isola. A oggi, manca ancora un tassello nel mosaico di questo presente, ed è proprio la storia di chi migra. Le nostre parole non riescono a cogliere appieno la loro verità. Possiamo nominare la frontiera, il momento dell’incontro, mostrare i corpi dei vivi e dei morti nei documentari. Le nostre parole possono raccontare di mari che curano e di mani che innalzano fili spinati. Ma la storia della migrazione saranno loro stessi a raccontarla, coloro che sono partiti e, pagando un prezzo inimmaginabile, sono approdati in questi lidi. Ci vorranno anni. È solo una questione di tempo, ma saranno loro a spiegarci gli itinerari e i desideri, a dirci i nomi delle persone trucidate nel deserto dai trafficanti d’uomini e la quantità di stupri che può subire una ragazza in ventiquattro ore. Saranno loro a spiegarci l’esatto prezzo di una vita in quelle latitudini in Libia e delle botte prese a ogni ora del giorno e della notte, della visione improvvisa del mare dopo giorni di marcia forzata e del silenzio che si impone quando s’alza lo scirocco e si è in cinquecento in un peschereccio di venti metri che sta imbarcando acqua da ore. Saranno loro a usare le parole esatte per descrivere cosa significa approdare sulla terraferma, dopo essere scappati dalla guerra e dalla miseria, inseguendo il sogno di una vita migliore. E saranno loro a spiegarci cosa è diventata l’Europa e a mostrarci, come uno specchio, chi siamo diventati noi».
Con lo sguardo partecipe e lucido dell’etnografo, attento ai dettagli, al paesaggio, alle relazioni, con la sofferenza del testimone, con una scrittura che naviga tra descrizione, memoria, ricordo, visione, Davide Enia ci consegna una sorta di promemoria per il futuro, quando la storia non soccomberà rispetto alle improvvisazioni della cronaca. In attesa di quei giorni, di cui non possiamo prevedere quasi nulla, Enia, con un linguaggio lirico e veritiero, mai artefatto o studiato, riesce a fotografare le cose minute, particolari apparentemente irrilevanti, storie grandi e minute. «Fotografare per me è come continuare a parlare con mio padre», dice il padre di Davidù, e proprio in un tempo e in un luogo di naufragio, padre e figlio ritrovano un tempo perduto e trovano le parole per dire quello che sentivano e non erano ancora riusciti a dirsi. Una storia bellissima di un legame intenso e delicato tra padre e figlio, che si ritrovano e si riscoprono, l’uno ormai medico in pensione, con la passione della fotografia (che è un suo personale modo di vedere e vivere il mondo), l’altro quarantenne artista e scrittore, vivendo assieme un’esperienza di lutto collettivo e un dolore privato. Il padre s’inventa, senza volerlo, un ruolo che il figlio gli riconosce con grande delicatezza. Il padre lo accompagna, e, silenzioso, quasi con lo sguardo clinico del medico, la professione di una vita, riprende dettagli minimali, capaci di creare un mondo a sé, come i visi, i volti, le rovine, la ruggine o gli angoli delle abitazioni.
Documentare, registrare, ascoltare, osservare volti, sguardi, storie, corpi, racconti e memorie di chi non si è girato dall’altra parte, di chi – uomini di mare, medici, gli uomini della Guardia Costiera, il personale della Croce Rossa, Paolo e Melo (gli amici di Davidù che, come altri, hanno scelto di vivere a Lampedusa) – ha intercettato l’ultimo sguardo di chi annegava, di chi ha esultato con l’esultanza del salvato, di chi ha pianto quando non è riuscito a salvare una bimba somigliante alla propria o ha dovuto recuperare e “restaurare” i corpi dei defunti, a cui qualcuno cerca di dare un nome, una provenienza, un’età, una storia, una sepoltura e una lapide.
Do
nne, uomini, bambini che soccombono, non si salvano, non approdano e donne, uomini, ragazzi che, tra fatica, paure, incertezze, domande, dolore, cercano di salvare il salvabile, di raccogliere anche un’ultima pecorella smarrita che si sta smarrendo, magari rimandando la “raccolta” delle altre anime-corpo che sembrano più al sicuro e al riparo (Enia dà un senso attuale e vivo al Vangelo) non sono riducibili a numeri, a cifre a descrizioni ad effetto. Sono persone in carne ed ossa, protagonisti, involontari, con una parte terribilmente diversa, di un grande rito sacrificale, di un terribile rito di passaggio, che dovrà portare, pure, a un mondo nuovo e migliore. Quello di Enia è un libro profondamente religioso, intessuto di legami e memorie, nel quale ogni vita appare sacra e irripetibile, ogni dolore, piccolo o enorme, viene osservato e descritto con grande senso di pietas.
Davide Enia anticipa questa possibile storia da scrivere con un romanzo polifonico, dialogico, come può fare il bravissimo e originale attore e regista, autore di drammi, storie e romanzi (tutti apparsi da Sellerio e poi diventati, come questa, opera di teatro) in cui le voci e le parole degli altri danno consistenza e verità alle tante domande per cui non abbiamo risposta.
Il naufragio, come hanno bene colto Elena Marinelli e Anna Mallamo, raccontato in questo libro non è solo quello degli emigranti, ma è una metafora di una condizione comune all’umanità dei nostri tempi. Se vogliamo, è anche il naufragio (o rischio naufragio) dell’autore, del suo caro amico morto di tumore, del padre e dello zio Peppe, tutti, diversamente, impegnati alla ricerca di un approdo, di un porto, di un paese.
«Lampedusa, da lepas, lo scoglio che scortica, eroso dalla furia degli elementi, che resiste e conferma una presenza, anche solitaria, nella smisurata vastità del mare aperto. Oppure, Lampedusa da lampas, la fiaccola che risplende nel buio, luce che sconfigge lo scuro». Lampedusa che scortica e guarisce, splende nel buio e lo illumina, accoglie e respinge, villaggio nella memoria e villaggio nel futuro.
«Avevo un rammarico, quello di non aver nuotato con lo zio nel mare dell’isola», scrive Enia e quasi per rendere possibile una nuotata ormai improbabile, allo zio, che gravemente ammalato, legge la prima stesura degli appunti, chiede: «Che dici, lo aggiungo al romanzo, zio?». Peppe, ascoltando le parole di Davidù sui rapporti e sui legami, familiari, amicali, di amore che durano, sempre anche oltre la morte, annuisce al nipote con occhi che vibrano di «amore sconfinato».
«Sì, mettilo alla fine, è bello concludere con la luce e con la resistenza», risponde con garbo e dolcezza Peppe, che così apre, mentre se ne va, al futuro.
Una memoria che non resta ancorata al passato, ma che vive nel presente, e Davidù dice a Beppe: «Tu per me non sarai mai una memoria, zio. Non sarai mai un ricordo. Il tempo accade nel presente. E nel mio presente il nostro rapporto esiste sempre. Tu sei sempre con me. Nella costellazione della mia esistenza, sei una delle stelle più luminose. E le stelle questo fanno: superano il tempo per indicarci la rotta».

*Antropologo e scrittore

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