REGGIO CALABRIA La famiglia Matacena ha svolto un ruolo fondamentale per la ‘ndrangheta reggina che non si limita a quello giocato dall’ex parlamentare del Pdl, oggi latitante a Dubai. Anche il padre, l’armatore Amedeo senior, per i clan reggini è stato un cruciale punto di riferimento. È questo il dato che emerge – in maniera cristallina – dalla deposizione del sostituto commissario della Dia, Michelangelo Di Stefano, ascoltato oggi come testimone al processo “’Ndrangheta stragista”. Originari della Campania, ma decenni ormai a Reggio Calabria i Matacena hanno costruito la propria fortuna sulle navi e sul traghettamento.
Ma quel business – ha spiegato oggi l’ufficiale, sulla base di elementi emersi in una serie di indagini – è cresciuto solo grazie ad un accordo tra ‘ndrangheta, massoneria ed eversione.
IL MEMORIALE ALBANESE A metterlo per primo nero su bianco è stato il collaboratore Giuseppe Albanese, che in un memoriale ha spiegato come la fortuna dei Matacena sia nata grazie – si legge nel documento – «ad un accordo con il gruppo fascista di Zerbi». Eminenza grigia e grande finanziatore dei moti di Reggio, vicino all’area eversiva che aveva nel principe nero Valerio Junio Borghese il proprio ispiratore, Zerbi è stata una delle anime nere che negli anni Settanta ha trasformato Reggio Calabria in un laboratorio dell’eversione, che ha visto agire insieme mafie, settori delle forze dell’ordine e dei servizi, massoneria di area piduista e neofascisti. Un grumo di potere che progettava di cambiare il volto della Repubblica, ma nel frattempo rastrellava affari, come quelli legati al traghettamento, poi offerti in dote a Matacena senior.
LA BATTAGLIA DELLA CARONTE «Quest’ultimo – scrive Albanese nel memoriale, citato in aula dall’ufficiale della Dia – negli anni 70/71 si servì dei fascisti per fare pressione su un gruppo di Industriali che avevano impiantato con il Dott. Leuzzi la società Caronte di Villa San Giovanni, per i viaggianti che scendono per la costa tirrenica molto più conveniente imbarcarsi con i loro automezzi a Villa San Giovanni». Un guaio per l’armatore, i cui traghetti all’epoca partivano dal porto di Reggio Calabria. «Con questo nuovo servizio la società di Matacena del porto di (RC) venivano a perdere sui profitti per mancanza di passeggeri – scrive Albanese nel memoriale – così impegnò le forze fasciste di (RC) e qualche mafioso a far pressioni ed intervenire con minacce sulla nuova società esistente, costringendoli ad una fusione della nuova società con quella di Matacena».
TRA USA E LOGGE Al netto dell’italiano zoppicante e della sintassi sconclusionata, il messaggio di Albanese è chiaro. La nascita della Caronte è stata un’operazione di alta ‘ndrangheta, decisa dai clan della città e da quei poteri occulti che negli anni Settanta avevano in Reggio una delle proprie principali basi logistiche. Poteri forse non solo italiani. «In questa operazione di fusione – scrive infatti Albanese – come guardia del corpo aveva Matacena degli Italoamericani». Un passaggio su cui in aula non sono emersi ulteriori dettagli, ma che alla luce delle parole di un altro pentito – l’ex capolocale di Pellaro, Filippo Barreca – potrebbe non stupire. È stato proprio Barreca – ricorda il sostituto commissario – a inserire Matacena senior tra gli affratellati della loggia segreta che Franco Freda, fuggito da Catanzaro dove era imputato per la strage di piazza Fontana e per mesi “ospite” del clan De Stefano – avrebbe creato durante la sua latitanza a Reggio Calabria.
FINALITÀ EVERSIVE «La loggia – ha messo a verbale il pentito – mirava ad assicurarsi il controllo di tutte le principali attività economiche – compresi gli appalti – della Provincia di Reggio Calabria, al controllo delle istituzioni, a cui capo venivano collocate persone di gradimento e facilmente avvicinabili, all’aggiustamento di tutti i processi a carico di appartenenti alla struttura, all’eliminazione, anche fisica, di persone “scomode” e non soltanto in ambito locale». Di fatto – ha spiegato Barreca in più di un’occasione- «si era creato un gruppo di potere che gestiva tutto l’andamento della vita pubblica ed economica in sintonia con altri gruppi costituitisi in altre città italiane». Secondo quanto emerso in diverse indagini, è questo l’ambiente in cui Matacena senior ha costruito la propria fortuna e in cui il figlio omonimo, Amedeo jr, ha messo in piedi la propria carriera politica. O forse quella che altri hanno stabilito per lui.
RAPPORTI SIGNIFICATIVI Inseguito da un’ordinanza di custodia cautelare e da una sentenza definitiva per concorso esterno, l’ex parlamentare di Forza Italia Amedeo jr, dal suo esilio dorato di Dubai non perde occasione di definirsi un “perseguitato politico”. Eppure gli elementi emersi in diverse indagini di mafia richiamate oggi in aula dal sostituto commissario Di Stefano, disegnano per Matacena un ruolo ben diverso. Per gli investigatori che li hanno raccolti e messi in fila dimostrano senza dubbio alcuno che Amedeo jr per la ‘ndrangheta tutta è punto di riferimento. Politico e non solo. Lo dimostra – ad esempio – la conversazione intercettata e finita agli atti dell’operazione “Mare-Monti” fra Leonardo Guastella e Antonio Cordì, il quale limpidamente afferma «La prossima volta andiamo e ci facciamo l’accordo a Reggio con Matacena e votiamo il suo, perché hai visto, se ne sono fottuti di lui. Matacena se vuole mi candida a me».
DALLA CITTA’ ALLA PIANA Non meno importanti per comprendere la caratura del personaggio – spiega l’ufficiale della Dia – sono gli approfondimenti agli atti del procedimento Cosmos, che hanno dimostrato come grazie ad una serie di società lussemburghesi Matacena sia entrato nel capitale della Gdm di Montesano, mentre è stata l’indagine Vertice a svelare come anche Pasquale Condello abbia tirato la volata elettorale del futuro deputato di Forza Italia. «So – afferma il pentito Pasquale Iannò in uno degli interrogatori agli atti di quel procedimento – che (Condello ndr) aveva interesse sui Matacena, promesse processuali». Ma con il deputato – emerge dall’indagine Matrioska – tramite alcuni intestatari fittizie era in rapporti anche con i Molè. Ulteriori legami, Amedeo jr – ricorda poi il sostituto commissario Di Stefano – li ha stretti grazie a uno dei suoi professionisti di fiducia, la commercialista Deborah Cannizzaro, per lungo tempo amministratrice della Amadeus (la capofila della holding Matacena) e in rapporti con diversi soggetti di peso della ‘ndrangheta reggina.
QUEL SUMMIT A POLSI Tutti rapporti che si spiegano alla luce di un dato, che forse più di tutti illumina il ruolo, il peso e la funzione di Matacena e della sua famiglia per i clan di Reggio e provincia. A fornirlo – ricorda in aula l’ufficiale – è Pasquale Nucera, elemento di spicco della ‘ndrangheta reggina, il 28 settembre del ‘91 invitato a partecipare ad un’importante riunione a Polsi. Una riunione a cui ha partecipato anche Amedeo jr “il pelato”. A quel summit erano presenti gli esponenti dell’èlite della ‘ndrangheta reggina, ma anche rappresentanti delle famiglie calabresi impiantate in Canada, Australia e Francia, Rocco Zito per Cosa nostra americana, i camorristi napoletani, ma anche un “colletto bianco delle mafie”, Giovanni Di Stefano. È stato lui a ordinare ai massimi vertici delle mafie lì riuniti «che bisognava appoggiare il nuovo “partito degli uomini” che doveva sostituire la D.C. in quanto questo ultimo partito non garantiva gli appoggi e le protezioni del pass
ato». Ed aveva il potere e il ruolo per farlo.
L’AVVOCATO DEL DIAVOLO Personaggio misterioso, conosciuto anche come “l’avvocato del diavolo” per aver assunto (senza avere uno straccio di titolo) la difesa di diversi criminali di guerra, Di Stefano era un uomo di potere. Legato ai traffici di scorie e di armi nei Balcani, perno delle forniture militari ai paesi sottoposti a embargo, legato a finanzieri serbi e a soggetti vicini all’ex Presidente serbo Milosevic, nonché amico del criminale di guerra Zeljiko Razjatovic, meglio conosciuto come Comandante Arkan, Di Stefano è organico a quel grumo di potere che negli anni Novanta ha costruito una nuova strategia della tensione per insediare un governo amico.
CAMBIO DI STRATEGIA Lo era prima, quando la strategia messa in piedi da mafie, massoneria, pezzi dei servizi ed eversione nera passava per il progetto separatista portato avanti con la costruzione delle leghe regionali, che grazie ai suoi contatti sono state finanziate persino dal comandante Arkan. Lo è stato dopo, quando voti, sforzi e risorse delle mafie sono stati convogliati su Forza Italia. «Intorno al 1994 – spiega in aula il sostituto commissario Di Stefano – va scemando l’interesse dei Graviano prima e di Brusca poi nel progetto delle leghe regionali, perché entrambi erano più interessati alla costruzione di Forza Italia».
LE AGENDE DI DELL’UTRI CONFERMANO Anche Bagarella, fra i primi sostenitori del progetto di costruzione di un soggetto politico di diretta espressione dei clan, «con il tempo – continua il sostituto commissario Di Stefano – ha rinunciato al progetto e si è allineato con Provenzano e i Graviano che erano già orientati su Forza Italia». Ma voti e risorse non sono stati dispersi. Come dimostrato dalle annotazioni nelle agende e rubriche telefoniche sequestrate a Marcello Dell’Utri. Fra volti e nomi della nascente Forza Italia e i protagonisti della stagione “meridionalista” c’era un consolidato e persistente tessuto di relazioni.
Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it
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