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La verità sulle stragi in una missiva dimenticata

REGGIO CALABRIA Prima di pentirsi e rivelare ai magistrati il suo ruolo negli attentati e gli omicidi dei carabinieri del ’93- ’94, per poi pentirsi di essersi pentito e poi pentirsi ancora, fino a…

Pubblicato il: 23/01/2018 – 9:08
La verità sulle stragi in una missiva dimenticata

REGGIO CALABRIA Prima di pentirsi e rivelare ai magistrati il suo ruolo negli attentati e gli omicidi dei carabinieri del ’93- ’94, per poi pentirsi di essersi pentito e poi pentirsi ancora, fino a sviscerare in lunghi e sofferti colloqui cosa avesse fatto durante quella stagione di sangue, Giuseppe Calabrò si era confidato con qualcuno. O meglio, era stato costretto a farlo.

L’OSTACOLO GRAMMATICA Determinato a scrivere una lettera ai magistrati per spiegare tutto quello che di quella stagione negli anni ha saputo o capito, ma anche per ottenere un trasferimento al meno rigido carcere di Bollate, Calabrò doveva affrontare un ostacolo insormontabile, grammatica e sintassi. Per questo ha chiesto a Gianluca Goglino, un detenuto che a Ferrara con lui divideva carcere e ore in biblioteca, di dargli una mano. Di rileggere quella lettera sgrammaticata e renderla leggibile, tanto da poterla inviare all’allora procuratore della Dna, Piero Grasso. Senza confidarne il contenuto a nessuno.

PROMESSA MANCATA Ma Goglino quella promessa non l’ha potuta mantenere. Fra quelle righe c’era nascosto un pezzo di storia italiana non ancora raccontato. C’erano vittime che mai avevano avuto giustizia né verità perché « (Calabrò ndr)sostiene che gli omicidi avevano un fine e una linea stragista. Era stato dato ordine di colpire le forze dell’ordine per un possibile accordo fra mafia e ‘ndrangheta». E c’era anche un riferimento ad una persona «che ha ordinato questi omicidi» che è «ancora libera» ed è la stessa che «garantisce protezione e lavoro alla famiglia Calabrò». Tutte rivelazioni troppo pesanti per essere coperte.

DOPPIO CANALE Per questo, ha informato sia il maresciallo del nucleo investigativo dei carabinieri di Ferrara, Riccardo Giardini, comandante della polizia penitenziaria, Paolo Teducci. Entrambi sono stati chiamati oggi a testimoniare dal procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo al processo “’Ndrangheta stragista”, scaturito dall’inchiesta che ha svelato i nomi dei mandanti di quelle stragi, concepite come tassello di un piano per cambiare l’assetto politico del Paese. E le informazioni che i due sono stati in grado di fornire coincidono perfettamente.

L’INFORMATORE Per Giardini, il primo a salire sul banco dei testimoni, Goglino era un informatore. Condannato per omicidio e con una storia di collegamenti con i clan calabresi alle spalle, dietro le sbarre Goglino ha seguito un percorso di rieducazione, che lo ha portato persino ad ottenere la semilibertà, ma si è rivelato anche una fonte preziosa per gli investigatori. Era lui a passare notizie utili su quanto avvenisse dietro le sbarre e – spiega Giardini – si è sempre trattato di informazioni che hanno trovato riscontro.

LA VERITA’ SULLE STRAGI Per questo, quando Goglino gli ha rivelato il contenuto della missiva di Calabrò, ha immediatamente fatto una relazione e l’ha trasmessa a chi di competenza. Anche perché – ha spiegato oggi in aula – l’informatore gli aveva detto chiaramente che in quelle lettere c’era una verità ancora non raccontata su fatti di sangue, che doveva essere messa a disposizione dei magistrati.

LA SOFFIATA A TEDUCCI Con il comandante della penitenziaria Teducci, Goglino ha usato invece un’altra tattica. Gli ha “soffiato” il luogo segreto in cui era conservata una pen drive nascosta usata dai detenuti. E l’ispezione che subito dopo è stata disposta, puntualmente ha permesso di individuare il dispositivo, ma è stata estesa anche al computer, cui avevano accesso tre detenuti, far cui Goglino e Calabrò. È lì che è stato rinvenuto il file della missiva. Tutti gli utilizzatori del computer sono stati sospesi, ma a nessuno è stata spiegata la motivazione.

PENTITO DI ESSERSI PENTITO Qualche giorno dopo, Calabrò ha anche lasciato il carcere di Ferrara per essere trasferito nell’ambito carcere di Bollate, senza mai inviare quella lettera. E con la partenza sembra anche dimenticare i propositi di collaborazione, fors complici anche – hanno svelato le intercettazioni – le continue pressioni della famiglia. Tuttavia quelle righe dimenticate oggi diventano fondamentali, perché fanno da riscontro alle parole che solo molto tempo dopo Calabrò ha trovato il coraggio di pronunciare di fronte ai magistrati. Quegli attentati – scriveva all’epoca – «mi furono deliberatamente ordinati. Una parola mi fu detta: dobbiamo fare come fa la mafia siciliana». E lui ha obbedito, tacendo per anni e nonostante tutti i processi affrontati sulla vera matrice di quegli agguati. Ma adesso sembra determinato a raccontare nei dettagli quel segreto con cui per anni ha deciso di convivere.

Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it

 

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