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Successo per il debutto reggino di "Casalingue"

REGGIO CALABRIA Il terzo appuntamento della rassegna “Il vento che muove”, stagione teatrale 2017/2018 del Teatro della Girandola di Reggio, è un debutto che gioca in casa. Lo spettacolo “Casalingu…

Pubblicato il: 27/01/2018 – 17:37
Successo per il debutto reggino di "Casalingue"

REGGIO CALABRIA Il terzo appuntamento della rassegna “Il vento che muove”, stagione teatrale 2017/2018 del Teatro della Girandola di Reggio, è un debutto che gioca in casa. Lo spettacolo “Casalingue” è una nuova produzione Teatro della Girandola con Santo Nicito che ne firma la regia. Il testo è l’ultimo lavoro firmato Domenico Loddo (Dora in avanti, Federeico II me, Scene con fermate, per citarne alcuni) con Daniela D’Agostino e Daniela D’Agostino che prestano il volto al proprio doppio. Lo spettacolo – andato in scena nell’omonimo teatro venerdì sera, in doppia replica di sabato – ha fatto il tutto esaurito. Era una prima attesa, per una produzione che ha coinvolto solo artisti locali. 
Sul palco, la scenografia occupa in maniera perfettamente divisa lo spazio. A destra, sul proscenio, un paio di decolleté rosse. A sinistra, su uno sgabello – fra diversi oggetti – si distinguono boccettine di farmaci, acqua, foto ingiallite e un gomitolo. Appeso, quasi sul fondo, un abito bianco. Due donne entrano in scena, una a breve distanza dall’altra. Alta e slanciata, la prima; minuta e formosa, la seconda, le due protagoniste manterranno lo stesso nome nella storia. Appare chiaro, fin dal primo dei sei quadri narrativi paralleli che cadenzeranno la drammaturgia, che il nocciolo della storia risiede altrove. Daniela “l’alta”, ago e filo in mano, parla di una felicità perduta. Questo, insieme a termini come «solitudine», «morte», «rinuncia» colorando la storia, ne diventano sfumatura; presagio di una tragedia che si mostrerà a piccole dosi. Se la prima donna appare calma, l’altra la compensa con uno spirito più frivolo. Ciò che sembra capriccio, cede il posto ad azioni ripetute e declamate con una latente follia (il disturbo ossessivo compulsivo con il blocchetto “conta parolacce” e il gioco del pinguino). A ogni piazzato soffuso (le luci sono curate da Simone Casile), Daniela inserisce elementi sul passato dell’altra donna; mentre l’altra Daniela D’Agostino – indossando le cuffie – conquista la sale con le note di Sergio Endrigo. Nel frattempo, racconti apparentemente banali di una vita trascorsa assieme, dai tempi dei banchi di scuola, al primo bacio, il loro, condivisione di un amore troppo presto soffocato. Abbandonato il coraggio di indagare oltre, le due donne prendono strade diverse: quella bassina, si sposa con Mario e con lui fa tre figli; l’altra, vive in solitudine. Ogni punto dato a quel vestito è un tassello narrativo che si aggiunge. E per ogni elemento in più un oggetto di scena scompare all’interno di una grande borsa bianca e nera. Nella nudità dello spazio scenico, una voce annuncia: «I visitatori sono pregati di lasciare la stanza dei degenti». Ora, Daniela ricorda e racconta di quell’incidente – avvenuto per causa sua – in cui la sua famiglia perse la vita. Aiutata dall’altra a spogliarsi, indossa finalmente l’abito bianco ormai rammendato: è una camicia di forza, coercizione di un dolore che non trova pace. «Siamo qui a pensare cosa saremmo potute essere. Avresti potuto salvare me, te, loro» osserva disperata. Tra i «se» e i «ma», la storia giunge al suo epilogo più tragico, rimarcando che una scelta diversa avrebbe determinato il decorso di tante vite.
Il testo merita il plauso speciale: è scritto con il black humour che contraddistingue la penna di Loddo. L’autore semina indizi – costituiti da frasi che rimangono sospese («Cos’ho fatto?») – funzionali alla risoluzione dell’intreccio narrativo. Si alternano momenti di sproloqui in cui si rievocano istanti di vita vissuta, a scene in cui l’emozione diventa evocativa. In questo, gioca un ruolo importante la regia che, creando sei spazi scenici “altri” rispetto al nodo centrale, permette alla storia di scorrere fluida svelando, in crescendo, cosa sia successo in realtà. È un lavoro che promette bene e potrebbe, sicuramente, regalare molto di più al suo pubblico. Nonostante la qualità degli elementi fin qui incontrati, si arriva a un punto in cui la storia si affossa in una ridondanza così forzata da creare pause troppo lunghe. Con un inizio promettente, ci si trova in una zona di stasi dove la ripetizione delle parole e degli sketch, non aggiunge niente a una storia che di per sé funziona da sola (la scena del «dopo di che»; i ricordi scolastici, le Scheiße Skulptur). Un’attenzione a parte merita il lavoro delle due interpreti. Un studio più approfondito e accurato, avrebbe dato una grossa mano a un testo che ha in sè la potenzialità di poter mostrare molto altro ancora.

Miriam Guinea
redazione@corrierecal.it

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