SAN FERDINANDO Un mazzo di rami di oleandro, senza fiori né gemme, appoggiati su delle lenzuola che li riparano dallo scheletro dei materassi andati in fumo. È lì che nella notte fra venerdì e sabato è morta Becky Moses, 26 anni e il sogno di un futuro in Italia. Ci era quasi riuscita, o quanto meno ci stava provando davvero a costruirsi una vita diversa da quella di fame e paura che si era lasciata alle spalle in Nigeria, dove Boko Haram è un incubo concreto e reale. Poi il no della commissione della territoriale alla sua richiesta d’asilo l’ha strappata a quel Cas (Centro di accoglienza straordinaria) di Riace in cui da due anni aveva trovato casa.
L’ULTIMO PERIPLO DI BECKY Sola, senza riferimenti al di fuori dell’ambiente protetto di Riace, Becky era arrivata a San Ferdinando per raggiungere alcuni connazionali solo tre giorni fa. Sperava di trovare un posto nella nuova tendopoli allestita qualche mese fa dalla prefettura, ma le sue richieste non hanno avuto risposta. Il posto è saturo da tempo ed entrarci è complicatissimo. Così ha cercato e trovato ospitalità nel ghetto. E lì ha trovato una morte atroce, probabilmente soffocata dai fumi in una tenda che è diventata il suo sudario. Chi ne ha trovato il corpo carbonizzato racconta che aveva le braccia strette sul viso, in un ultimo disperato gesto di protezione.
LUCANO: «ISTITUZIONI RESPONSABILI» «Un destino crudele ha segnato per sempre la vita di una ragazza in fuga dalle guerre e dalle persecuzioni – dice arrabbiato il sindaco di Riace, Mimmo Lucano – Di questa morte sono responsabili le istituzioni che hanno lasciato in questi anni che Rosarno continuasse così e i mercenari dell’accoglienza». Mentre i soldi per i Centri di accoglienza straordinaria quanto meno da giugno del 2016 tardano ad arrivare e Riace – afferma Lucano – «viene di fatto boicottata», si continuano a immaginare soluzioni emergenziali a problemi cronici.
ANCORA TENDE Da anni ormai, i braccianti a San Ferdinando chiedono dignità, documenti in tempi rapidi, lavoro dignitoso, la possibilità di affittare una casa. Ma la risposta sono solo tende. Spacciate come temporanee, ma regolarmente trasformate in fatiscenti strutture permanenti. Dopo l’incendio ne è sorta un’altra. Si tratta di una tensostruttura messa in piedi in fretta e furia dalla Protezione civile. Fra le brandine allineate dentro non c’è neanche lo spazio per passare, ma nonostante questo è assolutamente insufficiente per ospitare tutti quelli che nell’incendio hanno perso tutto. C’è anche una cucina da campo. Ma anche questa non riesce a fornire a tutti un pasto caldo.
EMERGENZA CRONICA Come ogni anno, la stagione delle arance ha richiamato a San Ferdinando migliaia di braccianti. A loro si sono aggiunti i tanti rifugiati che regolarmente devono tornare per rinnovare i documenti. C’è chi sta in Svezia, chi in Germania, ha un lavoro, una casa, ma ogni due anni deve fare ritornò lì dove il documento da rifugiato è stato emesso. E passano sette, otto mesi. I promessi piani di accoglienza diffusa sono rimasti sulle carte dei protocolli. E la tendopoli – erede di quella costruita “temporaneamente” otto anni fa, dopo la rivolta di Rosarno – cresce, si gonfia, si sposta attorno al nucleo originario. Anche oggi, fra le macerie delle vecchie tende e le pozzanghere rimaste dopo l’intervento dei vigili del fuoco, si è tornato a costruire.
COSTRUIRE FRA LE MACERIE C’è chi scava fra la cenere delle vecchie tende e baracche, chi pulisce le carcasse delle biciclette tentando di recuperare qualche pezzo, chi ha già trovato legna e assi per costruire un riparo. Nel campo reso spettrale dai pali anneriti delle tende che ancora si allungano verso il cielo, ci si arrangia come si può. E ci si continua a scaldare attorno a piccoli falò, pur nella consapevolezza che ogni fuoco è una minaccia.
A RISCHIO STRAGE «Dobbiamo mangiare e l’unico modo è accendere un fuoco. In ogni tenda c’è un fornelletto con una bombola a gas e tutti – dice Johua, dal Gambia – la sera lo accendono per scaldarsi o cucinare». Fortunatamente, nessuna delle centinaia delle bombole presenti al campo è esplosa la notte dell’incendio, quando le fiamme alte decine di metri, che rapide si allargavano di tenda in tenda, rendevano difficilissimo l’intervento dei Vigili del fuoco. Se anche una sola di quelle bombole fosse scoppiata, a San Ferdinando i morti si sarebbero contati per decine.
IN MARCIA PER BECKY Non tutti però oggi si sono rassegnati stoicamente a ricostruire fra le macerie. Un gruppo di braccianti, organizzati sotto le bandiere dell’Usb, ha deciso di dire basta. Ordinati, si sono messi in marcia dietro uno striscione che chiedeva “Lavoro, casa, dignità”, con in mano cartelli che pretendevano giustizia per Becky. Insieme a loro, attivisti delle associazioni e dei comitati che lavorano da tempo nel ghetto di San Ferdinando, come i militanti di quelle che lavorano a Reggio Calabria e in altre province. In corteo c’era anche il sindaco di Cinquefrondi, Michele Conia, l’unico amministratore della zona a marciare insieme ai migranti.
«CASA, LAVORO, DIGNITA’» Dalla tendopoli, il corteo – ordinato, pacifico – è arrivato al Comune di San Ferdinando, dove una delegazione è stata ricevuta dal commissario governativo per l’emergenza nell’area di San Ferdinando, il prefetto Andrea Polichetti, alla presenza del sindaco del paese, Andrea Tripodi, e del prefetto vicario di Reggio Colosimo.Sul tavolo, non solo la richiesta di far luce in fretta su quanto successo a Becky, ma anche le istanze che i bracciati avanzano da tempo e che cronicamente rimangono inevase: soluzioni abitative diverse da tende e baracche, snellimento delle procedure burocratiche, regolarizzazione del lavoro e dei contratti, fine dello sfruttamento nelle campagne. Nonostante i protocolli anticaporalato, per raccogliere arance e mandarini i braccianti vengono ancora pagati a cassetta, lavorano senza contratto e senza diritti, agli ordini di piccoli kapò e padroncini, che per conto dei proprietari dei fondi li trattano come bestie da soma.
ANCORA UNA RIUNIONE Attenta, la delegazione istituzionale ha ascoltato, ha preso nota e affermato di aver recepito. Ma soluzioni non ne ha fornite. Tutto è stato rimandato all’ennesima riunione in prefettura, durante la quale anche la Regione sarà chiamata a dire che ruolo vuole e può giocare nella gestione dell’area. Intanto a San Ferdinando ci si continua a scaldare attorno ai fuochi.
Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it
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