Mancano una manciata di giorni all’appuntamento con le urne per rinnovare il Parlamento e le critiche alla legge elettorale non accennano a sopirsi. Anzi più si avvicina la data e più si alza l’alone di incertezza circa le previsioni per l’affluenza. Responsabilità evidentemente tutte in capo alle insufficienti spiegazioni fornite sul nuovo sistema elettorale. I più accorti dicono che la normativa può determinare coalizioni finte, realizzate nel tentativo di raggiungere la maggioranza ma senza un programma comune tra i partiti che rimangono divisi anche sul nome del leader; in pratica accomunati solo dalle dichiarazioni di apparentamento. A rendere incerto il panorama contribuisce anche l’insostenibile meccanismo del voto unico e gli altri “pasticci” come quello della soglia di sbarramento al 10 per cento per i partiti che corrono in coalizione inserita per fare in modo che quelli più grandi si prendano i voti delle liste e delle listarelle coalizzate considerato che da sole sarebbero state escluse perché rischiano di non arrivare al tre percento.
Si può dire di tutto su Rosati, che si sia intestato una legge elettorale farlocca, che abbia messo il suo nome e la sua esperienza in discussione, che abbia mandato a monte il principio del potere al popolo consentendo alle segreterie dei partiti di scegliere i candidati, ma certamente non che sia stato un attento stratega almeno per il Pd: poche persone sparse a macchia di leopardo sul territorio e il gioco è fatto. Così il principio della salvaguardia della libertà, della democrazia, della partecipazione, si può considerare una chimera. Pochi candidati per garantire un risultato elettorale utile! L’Italia potrà finalmente vantarsi che il prossimo mese di marzo avrà votato per eleggere il Parlamento con una legge elettorale degna di un Paese retrivo e antipopolare. Naturalmente la responsabilità, adesso che l’analisi ha fatto sì che emergessero le magagne, purtroppo non può che ricadere sull’autore della legge, senza voler ignorare che anche gli altri l’hanno votata.
Si dirà che il voto è stato condizionato dall’ennesima fiducia posta dal Governo. È vero, ma andarsene a casa senza essere complici non sarebbe stato molto più dignitoso? Quanto meno avrebbe fugato il sospetto (per qualcuno convinzione) che spesso in Parlamento gli interessi di bandiera, ma anche quelli dei singoli, prevalgono su quelli generali. Purtroppo queste “assunzioni di responsabilità” prese in “zona Cesarini” sono sempre più frequenti e dimostrano che mal si associano all’idea di una correttezza istituzionale. La sensazione che se ne ricava è che gli interessi del Paese paradossalmente possono diventare subalterni; vicende che fanno prevalere la difesa delle prerogative di ciascuno rispetto a quelle più generali del popolo che in Costituzione viene definito sovrano. Nonostante tutto, vogliamo pensare che su quel voto abbiano pesato di più le scelte politiche rispetto al rischio che si potessero perdere le indennità di funzione (14.634,89 euro al mese per i senatori, 13.971,35 euro per i deputati) che fanno anche cumulo con la pensione. Una tale malaugurata ipotesi sarebbe avvilente.
Però assistere al depauperamento dei valori che la parola Patria implica è una sensazione indicibile per chi è stato educato a ritenerli imprescindibili. Sospettare che le leve del Paese potrebbero essere nelle mani di un migliaio di uomini e donne che possono votare spinti da interessi personali è un dubbio che deprime e che fa riflettere. Nel dubbio non rimane che auspicare che si riprenda almeno a educare i giovani sin dall’età scolare all’idea di Nazione; insegnare loro ad amare la Patria può significare ritrovarsi negli anni una popolazione più responsabile, partecipe alle scelte e paladina dei diritti di ciascuno.
Nella ricerca di una giustificazione del “Rosatellum” c’è anche il tentativo di accreditarlo nell’opinione pubblica come una legge nata per bilanciare la crisi dei partiti colpiti da un crollo di credibilità. E anche per fugare le paure degli elettori che pesano sul futuro del Paese a sua volta minacciato dalla globalizzazione e dall’innovazione. La nuova legge elettorale, pertanto, avrebbe dovuto offrire ai cittadini una “protezione” che, nonostante i buoni propositi, non si riesce a individuare. Sono stati sottaciuti i risvolti delle pluricandidature. Prima o poi bisogna che qualcuno lo spieghi agli italiani. Sarebbe stato più onesto dire chiaramente che la possibilità di essere candidati in più luoghi dà ulteriori garanzie di essere eletti ai prescelti che, nella maggior parte dei casi, sono i big dell’uninominale. E che – come ha sostenuto il Corriere della Sera alcuni giorni or sono – «aggirano i paletti delle quote di genere per quanto riguarda l’alternanza uomo/donna nei listini e un rapporto del 60-40% tra i capilista dei due sessi. Paradossalmente, infatti, il pluricandidato sarà eletto nel collegio plurinominale nel quale il suo partito farà registrare il risultato peggiore».
Un sistema farraginoso, difficile da recepire, pieno di insidie per quanto riguarda le preferenze; che non snellisce ma complica; con candidati scelti dalle segreterie dei partiti e con la possibilità concreta che, non raggiungendosi il quorum di maggioranza, si possa ritornare a votare. Se così dovesse accadere si spera almeno che ci verrà proposta un’altra legge elettorale. Il “Rosatellum” è un sistema difficile da assimilare tanto che è stato classificato tra le cause che possono fare lievitare l’astensionismo. La critica più spietata riguarda il voto di preferenza in quanto non è detto che vada assegnato al candidato scelto dall’elettore. Può accadere, infatti, che un voto espresso in un seggio della Calabria possa finire in Alto Adige e viceversa. La conseguenza di tale meccanismo determinerebbe che candidati, pur occupando il secondo posto in lista, non vengano eletti. Un esempio di coerenza elettorale che non snellisce ma complica. Qualcuno, più caustico, l’ha assimilato al gioco del sudoku, con l’elettore che “vota” al buio.
*giornalista
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