REGGIO CALABRIA Se al Nord la ‘ndrangheta è ormai radicata è anche grazie alla «disponibilità del mondo imprenditoriale, politico e delle professioni (il cosiddetto capitale sociale) a entrare in rapporti – per una reciproca convenienza – con il sodalizio mafioso». Dopo anni di timide ammissioni, la commissione parlamentare antimafia nella sua ultima relazione – che sarà presentata il prossimo 21 febbraio, ma il Corriere della Calabria ha avuto modo di leggere in anteprima – punta il dito contro la borghesia del Nord Italia. Se le mafie, e la ‘ndrangheta in particolare, hanno messo radici è perché – affermano i parlamentari – qualcuno ha ritenuto conveniente che così fosse.
SCELTA CONSAPEVOLE Da diverse indagini, segnala la commissione, è emerso come «nell’attuale situazione economica caratterizzata dalla scarsità di lavori pubblici, di contrazione del credito bancario e del contenimento dei costi, l’imprenditoria abbia ricercato contatti con la ‘ndrangheta allo scopo di fare affari con la stessa e di ricavarne (momentaneamente) vantaggi, rappresentati dall’acquisizione di capitali ingenti, dalla possibilità di disporre di metodi convincenti per il recupero crediti anche di ingente valore, dall’imporsi nel territorio in posizione dominante a scapito della concorrenza».
MANI SU EXPO Pur di non perdere neanche un grammo del proprio potere e di non cedere neanche il minimo margine di guadagno, la grande imprenditoria del Nord ha spalancato le porte ai clan che in questo modo hanno acquisito il controllo «diretto o indiretto di società operanti in vari settori (edilizia, trasporti, giochi, smaltimento rifiuti) e di appalti pubblici, riciclando capitali criminosi nell’economia legale». Anche la tanto decantata Expo, ufficialmente blindata da controlli affievolitisi via via che i ritardi mettevano in discussione la puntuale apertura dei cancelli, è stata – ammette oggi la commissione – preda dei clan.
METODI ORMAI NOTI E se il controllo degli appalti pubblici è ormai notoriamente – affermano i parlamentari della commissione – «uno dei principali terreni di incontro fra mafie, imprenditori, uomini politici e funzionari amministrativi», dopo anni di inchieste è possibile anche tracciare un tipico modus operandi di cannibalizzazione dei lavori. Generalmente, si legge nella relazione, consiste nel «frapporre fra sé e l’amministrazione un terzo soggetto, formalmente estraneo, una nuova società partecipata e amministrata da prestanome riconducibili a famiglie malavitose, ma da loro formalmente distinte».
LE FACCE SOCIETARIE DEI CLAN In sintesi, si crea un paravento per celare la presenza mafiosa, che può assumere – spiega la commissione – varie forme come «srl sottocapitalizzate» o «società cooperative, appositamente costituite per l’esecuzione specifica di un lavoro il cui punto di forza è rappresentato proprio dalla temporaneità della durata del rapporto, limitato nel tempo alla realizzazione dell’opera», ai «raggruppamenti temporanei di imprese», così come «l’imposizione a grandi realtà imprenditoriali anche di carattere nazionale di imprese legate ad associazioni criminali per la realizzazione di piccoli lavori di subappalto».
RAPPORTI DI COINTERESSENZA E COMPARTECIPAZIONE Spesso – ricorda la commissione – le imprese a partecipazione mafiosa sorgono come legali, ma finiscono per instaurare rapporti di cointeressenza o compartecipazione con esponenti mafiosi, i cui capitali sono stati investiti in modo organico nelle aziende. Per la commissione, sono «il frutto degli intensi e stabili rapporti creati dalle organizzazioni criminali con i più vari settori dell’economia legale, e fondati non solo su atti violenti, ma anche su una reciprocità di interessi e una compenetrazione di capitali e competenze». Traduzione, i soldi non puzzano e per la grande borghesia quelli della ‘ndrangheta, meno. E i clan aprono così un gigantesco canale di riciclaggio.
NON SERVE UN “BATTESIMO” Chi fra gli imprenditori si presti a tali operazioni – specifica la commissione – non può essere considerato una vittima. «Questi soggetti – si legge nella relazione – sia che assumano la qualità di soci effettivi, sia che rimangano semplici prestanome, svolgono stabilmente una funzione propria dell’associazione mafiosa: quella della conquista del potere economico attraverso il controllo di notevoli fasce di attività formalmente lecite, esercitate non come semplice copertura, ma come sbocco criminale delle attività criminali». Traduzione: non serve un battesimo o un giuramento su un santino per lavorare alla costruzione o al rafforzamento di questo o quel clan. Basta quello che sentenze, ormai divenute definitive, hanno cristallizzato come «rapporto sinallagmatico, tale da produrre vantaggi per entrambi i contraenti, consistenti per l’imprenditore nell’imporsi nel territorio in posizione dominante e per il sodalizio criminoso nell’ottenere risorse, servizi e utilità».
PROFESSIONISTA AVVISATO Lo stesso si può dire di quei professionisti, come avvocati, commercialisti, notai e pubblici funzionari – a partire da quelli delle Agenzie delle entrate – che mettono conoscenze, competenze e mansioni al servizio delle ‘ndrine, dunque come tali – è emerso in diverse inchieste – considerati concorrenti o partecipi. Tuttavia, sottolinea infine la commissione, «va valutato anche il concetto di “soggetti indiziati di appartenere”», cioè che abbiano un comportamento «che pur non integrando gli estremi del reato di partecipazione ad associazione mafiosa, sia funzionale agli interessi dei poteri criminali e costituisca una sorta di terreno favorevole permeato di cultura mafiosa». Personaggi, fra cui un commercialista, un funzionario dell’Agenzia delle entrate, imprenditori – ricordano infine i parlamentari – per i quali il tribunale di Milano ha applicato la sorveglianza speciale, perché hanno obiettivamente agevolato con le loro attività la ‘ndrangheta. Professionisti avvisati, mezzi salvati.
Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it
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