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Scimone, venditore di piastrelle e uomo dei clan

REGGIO CALABRIA Ufficialmente si presentava come un semplice venditore di piastrelle, erede di un’azienda della jonica attiva da generazioni, per giunta costretto a dislocare la maggior parte delle…

Pubblicato il: 19/02/2018 – 11:43
Scimone, venditore di piastrelle e uomo dei clan

REGGIO CALABRIA Ufficialmente si presentava come un semplice venditore di piastrelle, erede di un’azienda della jonica attiva da generazioni, per giunta costretto a dislocare la maggior parte delle attività all’estero per sfuggire alle pressioni della ‘ndrangheta. In realtà, Antonino Scimone era l’uomo che il clan Nirta di San Luca aveva scelto per gestire un complesso sistema di società cartiere che ha permesso ai clan della jonica, come della tirrenica, di ripulire enormi quantità di denaro. Dietro di lui – è emerso dalle indagini coordinate dal procuratore vicario Gaetano Paci, dall’aggiunto Giuseppe Lombardo e dai pm Stefano Musolino e Francesco Tedesco – c’erano Antonio Barbaro, dei “Nigri” e Bruno Nirta “Scalzone”, insieme al figlio Giuseppe.

 

IL SISTEMA A Scimone e ai suoi “padroni” di ‘ndrangheta faceva capo un complesso sistema di società cartiere, sparpagliate fra Croazia, Slovenia, Austria e Romania, che generalmente dopo non più di un paio di anni di “attività”, venivano sistematicamente trasferite nel Regno Unito e cessate. Un metodo – spiegano gli investigatori – funzionale ad evitare accertamenti, anche ex post, sulla contabilità delle aziende, gestita in modo quanto meno creativo. Tutte le società venivano infatti regolarmente coinvolte in una serie di transazioni commerciali, formalmente regolari, ma in realtà fittizie, come falsi erano i pagamenti. Del resto, lo scopo di quelle operazioni era ben altro. Quelle false compravendite servivano infatti ai clan per mascherare innumerevoli trasferimenti di denaro da e verso l’estero, necessarie per lavare il denaro sporco e per poterlo poi reinvestire.

 

RICICLAGGIO UNITARIO Un sistema che per anni ha funzionato grazie al grande numero di aziende e “clienti” coinvolti e rappresenta plasticamente l’unitarietà delle élites della ‘ndrangheta reggina, perfettamente coordinate e unite nella gestione dei maxi-affari e del riciclaggio. Alle cartiere di Scimone si rivolgevano infatti numerosi imprenditori di diretta o indiretta espressione dei clan dei tre mandamenti. E lui, Scimone, riusciva a far transitare dai conti delle società cartiere flussi finanziari per diverse centinaia di migliaia di euro al mese. Un giro di denaro vorticoso, lo definiscono gli investigatori, che terminava in Italia o mediante bonifici a società di comodo, oppure sui conti di società estere, da cui il denaro veniva prelevato per essere portato in Italia in contanti.

 

L’INFILTRAZIONE NEGLI APPALTI PUBBLICI I soldi così ripuliti potevano dunque essere reinvestiti dal clan, che hanno dimostrato una straordinaria capacità di infiltrarsi nella gestione ed esecuzione di appalti pubblici, tramite la predisposizione di contratti di joint venture o di “nolo a freddo”. Formule previste dal codice degli appalti, ma che nelle mani di Scimone si trasformavano in strumenti utili per drenare, in modo apparentemente lecito, denaro da società che si erano aggiudicate appalti pubblici.

 

I CLIENTI REGGINI DI SCIMONE Servigi che ha offerto ad una folta schiera di imprenditori, calabresi e non. Fra i reggini ci sono Pietro Canale (socio di maggioranza ed amministratore della Canale Srl, società molto attiva nel settore della costruzione e gestione di condutture di gas), ritenuto responsabile dei reati di riciclaggio, autoriciclaggio e impiego di denaro, beni, utilità di provenienza illecita e Antonino Mordà, ras della vendita di elettrodomestici, già in passato interessato da procedimenti in materia di criminalità organizzata.

 

IMPRENDITORE – USURAIO Ufficialmente a capo di una capillare rete di negozi di elettronica ed elettrodomestici, in realtà secondo gli investigatori Mordà sarebbe stato impegnato in altra e ben più redditizia attività. La straordinaria liquidità, proveniente dalla vendita al dettaglio, veniva infatti utilizzata per finanziare un giro di usura e di esercizio abusivo del credito, soprattutto ai danni di imprenditori locali in difficoltà. Un settore di business che Mordà avrebbe gestito insieme a Pierfrancesco Arconte, figlio del più noto Consolato, già condannato nel processo Olimpia quale elemento di vertice della cosca Araniti. Nella rete della Dia è finito anche, con la contestazione del reato di riciclaggio, un impiegato di banca, il quale si è dimostrato sempre solerte nel soddisfare le illecite esigenze del Mordà.

 

I CLIENTI DELLA PIANA Ma anche per gli imprenditori di ‘ndrangheta della Piana di Gioia Tauro, Scimone era un riferimento sicuro. Alle sue imprese di carta – ed in particolare alla croata “Nobilis Metallis Doo” e alla slovena “B-Milijon, Trgovina In Storitve Doo” – si sono rivolti anche i Bagalà e Giorgio Morabito, già finiti in manette nell’operazione “Cumbertazione” come imprenditori della famiglia Piromalli, che in nome e per conto del potentissimo casato mafioso avevano messo le mani sui principali lavori pubblici nell’area della piana di Gioia Tauro. Un obiettivo raggiunto anche grazie alla movimentazione e pulizia dei capitali fornita dalla holding di Scimone. Sotto la lente degli investigatori, sono finiti due appalti, finanziati con i fondi europei P.I.S.U. (Piani Integrati di Sviluppo Urbano), quello per “Centro Polisportivo a servizio della città – porto”, gestito dal Comune di Rosarno, e quello per il “Centro Polifunzionale – lato sud del lungomare di Gioia Tauro”, gestito dal comune di Gioia.

 

IL COMUNE DI ROSARNO BANCOMAT Nel primo caso, ad aggiudicarsi l’appalto era stata la Barbieri Costruzioni srl, che dal Comune di Rosarno aveva ricevuto un’anticipazione per 877.557,12 euro. Parte di tale somma, circa 670 mila euro, era stata fatta confluire dai conti correnti della “Barbieri” alle società italiane riconducibili allo Scimone, quindi a quelle estere, la Nobilis Metallis Doo e la Bmilijon, da cui sono poi partiti bonifici in favore di vari imprenditori coinvolti nel sistema, tra cui Mordà ed Canale, e sono stati prelevati contanti poi consegnati a Morabito. Metodo simile è stato utilizzato a Gioia Tauro, dove il Comune ha concesso alla società aggiudicataria dei lavori, la “Cittadini Srl”, un anticipo sull’importo del SAL per 775.966,66 euro a fronte di fatture emesse, tra le altre, da imprese riconducibili allo stesso Scimone.

 

IL BROKER DEL RICICLAGGIO Scimone e le sue imprese di carta erano dunque in grado di lavare e riciclare in modo adeguato, sicuro e protetto enormi quantità di denaro sporco per intere filiere criminali riconducibili alle principali cosche di ‘ndrangheta di tutti i mandamenti. Al pari di un broker della droga, pronto a mettersi al servizio di qualunque clan, Scimone era un riciclatore professionista al servizio di tutta la ‘ndrangheta, a cui ha messo a disposizione il suo collaudato sistema di società di comodo italiane e straniere.

 

FERMATI E INDAGATI CALABRESI Un giro d’affari enorme che in manette ha fatto finire 27 persone, ma ha portato all’iscrizione di altre 46 su registro degli indagati. In più è stato richiesto ed ottenuto il sequestro preventivo di 51 società con sede in varie 4 regioni d’Italia ed anche all’estero, 19 immobili e disponibilità finanziarie per un ammontare complessivo di circa 100 milioni di euro.

 

GLI AFFARI FIORENTINI La holding di Scimone però non si limitava a ripulire e riciclare denaro. Debitamente ripuliti, i soldi venivano reinvestiti da Scimone, Nirta e Barbaro anche nel settore conciario toscano. In 11, fra cui molti imprenditori della zona, sono finiti in carcere, mentre in 3 sono stati mandati ai domiciliari, mentre sotto sigilli sono finite 12 imprese.

 

L’UOMO IN TOSCANA  Il sistema era collaudato. Il denaro sporco, filtrato dalla holding di Scimone, diretta espressione dei Nirta e dei Barbaro, veniva consegnato a Cosma Damiano Stellitano, che si occupava di “reinvestirlo” in un maxigiro di credito abusivo in Toscana. Gli imprenditori in crisi di liquidità si rivolgevano a Stelitano per grandi o piccole somme, che poi “restituivano” saldando fatture per operazioni inesistenti emesse dalla Unipel Srl di Giuseppe Nirta, che immediatamente le girava ad un’altra società del gruppo, la Marapel srl, per poi reimmetterle nel circuito delle società estere.

 

LA CHIAVE STA NELL’IVA Gli imprenditori pagavano le fatture emesse dalle società di Scimone per operazioni inesistenti comprensive di Iva, che tuttavia non veniva mai versata allo Stato italiano. Traduzione, la ‘ndrangheta incassava il prestito erogato più l’Iva su esso calcolata, mentre gli imprenditori che al riciclatore dei clan si sono rivolti non hanno avuto un euro di danno, perché gli interessi sul denaro anticipato dal sistema Scipione (esattamente pari all’Iva) venivano assorbiti dal regime fiscale e scaricati dalle tasse. A perderci dunque era solo l’Erario.

 

GLI UOMINI DEL SISTEMA Un meccanismo presidiato in Toscana da Giuseppe Nirta in persona e che ha perfettamente funzionato anche grazie agli uomini di fiducia del clan in regione, come Cosma Damiano Stelitano, Andrea Iavazzo, Ferdinando Rondò e Giuseppe Pulitanò, tutti di origine calabrese, che attorno a imprenditori conciari che non si sono fatti scrupolo alcuno nell’accettare ingenti somme di denaro contante palesemente riconducibile alla sfera finanziaria dei clan Nirta e Barbaro.

 

MACCHINA INCEPPATA A far inceppare il meccanismo, la denuncia presentata da due dei “clienti” di Scimone e soci, Renato Ciulli e Andrea Michelucci. Una vecchia conoscenza per gli investigatori. Pluripregiudicato toscano, da tempo considerato soggetto da monitorare, Michelucci si è rivolto alla Finanza, denunciando di essere stato minacciato, picchiato e persino sequestrato per non essere riuscito a restituire un prestito da 30mila euro a Stellitano, uomo di fiducia della holding di Scimone. Circostanze che hanno allarmato inquirenti e investigatori, che hanno immediatamente avviato le indagini che hanno portato alla luce la banca abusiva gestita dal clan.

 

I NOMI Tra i destinatari delle 14 misure cautelari emesse dal gip di Firenze c’è anche Giuseppe Nirta, nipote e omonimo del boss della ‘ndrina di San Luca, ucciso nel 1995. Per Nirta il giudice Paola Belsito ha disposto il carcere in quanto ritenuto soggetto che opera «in collegamento, nell’interesse, a favore di articolazioni mafiose storicamente e stabilmente connotate», le cosche Nirta di San Luca e Barbaro di Platì. Gli altri destinatari della misura in carcere sono: Antonio Scimone, 43 anni, di Melito Porto Salvo (Reggio Calabria), Cosma Damiano Stellitano, 53 anni, nato a Melito Porto Salvo ma residente a Vinci (Firenze), Antonio Barbaro, 45 anni di Plati’ e residente a Cosenza, Andrea Iavazzo, 65 anni, nato a Fucecchio (Firenze) e residente a Pistoia, Maurizio Sabatini, 58 anni, di Santa Croce sull’Arno (Pisa), Giovanni Lovisi, 64 anni, originario di Salerno e residente a Santa Croce sull’Arno (Pisa), Lina Filomena Lovisi, 33 anni, di Santa Croce sull’Arno (Pisa), Giuseppe Pulitanò, 30 anni, di Melito Porto Salvo (Reggio Calabria), Ferdinando Rondo’, 44 anni, di Melito Porto Salvo (Reggio Calabria), Francesco Savario Marando, 40 anni, di Locri (Reggio Calabria). Ai domiciliari gli imprenditori Alessandro Bertelli, 45 anni, di Empoli (Firenze) e Filippo Bertelli, 49, di Fucecchio (Firenze), e Marco Lami, 59 anni, di Santa Croce sull’Arno (Pisa). 
Questi, invece, i nomi delle persone fermate dalla Dda di Reggio Calabria: Pierfrancesco Arconte, Roberto Simone Argirò, Tindaro Giulio Barbitta, Pasquale Barrilà, Domenico Brizzi, Pietro Canale, Domenico Cangemi, Carmelo Caridi, detto Carmine, Antonino Carlo Chirico, Teresa Chirico, Pietrangelo Crocé, Domenico D’Agostino, Domenico Gallo, Antonio Lizzi, Maria Mollica, Giorgio Morabito, Antonino Mordà, Domenico Mordà, Antonio Nicita, Bruno Nirta, Giuseppe Nirta, Daniele Pisano, Giuseppe Pulitanò (cl. ’73), Giuseppe Pulitanò (cl. ’88), Ferdinando Rondò, Antonio Scimone, Francescoattilio Scimone.

Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it

 

 

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