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«Ancora lunga la strada che porta a una destra “normale”»

  Teste rasate, braccia tese in segno di saluto fascista, difesa della sovranità nazionale o, per essere à la page, sovranismo, violenze xenofobe. Ma che razza di destra è questa? È la destra di cu…

Pubblicato il: 21/02/2018 – 11:19
«Ancora lunga la strada che porta a una destra “normale”»

 

Teste rasate, braccia tese in segno di saluto fascista, difesa della sovranità nazionale o, per essere à la page, sovranismo, violenze xenofobe. Ma che razza di destra è questa? È la destra di cui l’Italia avrebbe bisogno? È la destra che, in un normale sistema politico, dovrebbe competere con la sinistra?
Ricorderete tutti che Fini, nel 1995, aveva immerso nel lavacro delle acque di Fiuggi la tradizione neo-fascista, affrontando una non facile operazione culturale diretta ad affidare la destra a nuove categorie politiche. Ed ad ancorarla così a nuovi valori e principi all’interno di un orizzonte liberal-democratico. Dal Movimento Sociale Italiano – il partito della Fiamma, che dal 1946 aveva custodito l’eredità della Repubblica Sociale Italiana -, nasceva Alleanza nazionale. Un nome pensato da Domenico Fisichella, intellettuale e professore universitario cui in gioventù non furono estranee idee monarchiche.
Fini, due anni prima (1993), si era candidato a sindaco di Roma, giungendo al ballottaggio contro Rutelli. Non vinse le elezioni, ma, al secondo turno, raccolse il 47% dei voti. E non erano solo voti di “destra”. Erano anche voti moderati. Per Fini si schierò anche Silvio Berlusconi. Anche a Napoli la nipote di Benito Mussolini, Alessandra Mussolini, portò il partito al ballottaggio contro Bassolino con un niente affatto disprezzabile 37%. Perse le elezioni. Ma era l’inizio dello “sdoganamento” del Movimento Sociale Italiano. Del partito neofascista, antisistema.
Gli anni 90 segnarono, per la storia politica repubblicana, un giro di boa.
Passare attraverso le acque di Fiuggi diventava una scelta quasi obbligata, considerata anche la complessiva situazione politica dell’epoca: crisi della “prima repubblica”, scioglimento e  rifondazione di partiti storici, legge elettorale maggioritaria. Erano gli anni di Tangentopoli. Da cui il Movimento Sociale Italiano uscì sostanzialmente illeso. Ma era, questa, una patente che non gli bastava per accreditarsi come partito di governo, per proporsi come partito “presentabile” agli occhi dei moderati e riuscire così ad allargare il tradizionale bacino elettorale. Né erano sufficienti i modi garbati ed eleganti di Fini, uno – lo si ricorderà – che, pur sempre, aveva definito Benito Mussolini il più grande statista italiano del Novecento (solo nel 2002 Fini negherà questa statura al dittatore del ventennio, quando ormai, nel 1999, aveva affrontato il viaggio ad Auschiwitz. Un viaggio che lo avrebbe poi portato, nel novembre 2003, a Gerusalemme. A visitare lo Yad Vashem, il Museo dell’Olocausto. Ne sarebbe uscito con la decisa condanna del fascismo e delle leggi razziali. Il fascismo era ormai il «male assoluto»).
Occorreva, insomma, l’acqua di Fiuggi per rendere “potabile” il brodo nel quale aveva sempre navigato la galassia della destra sociale missina.       
Non si può affatto dire che, quella di Alleanza nazionale, sia stata un’operazione politico-culturale guardata con disinteresse dai politologi e dai più attenti osservatori, anche perché era sospinta da un variegato e robusto laboratorio di intellettuali seri, di riviste, di fondazioni.
Vittorio Foa l’aveva definita una «destra normale». Insomma, una destra moderna che si proponeva di guardare lontano, di costruire un pensiero lungo, radicandosi nel conservatorismo del XIX secolo e nella cultura laica di ascendenza illuministica. E che, nell’orizzonte costituzionale, sembrava non volersi sottrarre al compito di farsi carico della tradizione nazionale ed occidentale, pur nella contrapposizione delle idee politiche. Mentre, nel contesto europeo, si proponeva di affiancarsi alla destra repubblicana di Sarkozy e al partito conservatore di Cameron.
Mutava il linguaggio politico, tradizionalmente fondato sulle parole «legge ed ordine». È sufficiente dare uno sguardo alle riviste che gravitavano intorno al laboratorio di Fini per rendersi conto che un nuovo dizionario civile tentava di fare breccia nel lessico della destra  neo-fascista. Lo stesso libro di Fini, “Il futuro della libertà” (Rizzoli, 2009), introduceva, o avallava, parole-chiave come «patriottismo repubblicano», «integrazione», «laicità», «cultura della legalità», «green economy». Linee politico-culturali che volevano, insomma, accreditare la nuova formazione come una destra responsabile, modernizzatrice, fondata sullo «spirito pubblico», sulla «coesione sociale», sull’innovazione economica e tecnologica. Ma che, al tempo stesso, erano “ibridate” da idee dirette ad esaltare il valore della «nazione» e dello «Stato unitario» a fronte delle spinte centrifughe, a rivalutare il concetto di comunità rispetto a quello di individuo che aveva segnato le politiche thatcheriane e reaganiane, a coniugare in una sorta di nuova “alleanza nazionale” spezzoni di conservatorismo e di liberalismo, di europeismo e di nazionalismo, e, infine, a promuovere politiche di sviluppo industriale che, pur non negando la centralità del mercato, non fossero d’ostacolo alla difesa della dimensione pubblica, anche a costo di ricorrere a strumenti di tipo protezionistico.  
Insomma, Fini aveva cercato di dare alla “sua” destra un respiro culturale, un armamentario politico-ideologico, più o meno coerente, in grado però di offrirsi come alternativa presentabile anche per gli elettori moderati in cerca di collocazione dopo la crisi del sistema politico-ideologico degli anni ’90. Un’operazione intelligente perché potenzialmente in grado di assorbire i voti di tutto l’elettorato di destra. Anche di quell’elettorato che, in mancanza di una destra “vera” – conservatrice e liberale – aveva finito per lasciarsi attrarre dalle sirene della Lega e da quelle di Berlusconi. 
E, tuttavia, non riuscì ad essere un’operazione indolore, perché, pur convincendo una larghissima fetta dei militanti e della base, non riuscì a piegare i “duri e puri”. Fu così che, intorno alla nuova formazione ideata da Fini, continuò ad agitarsi una galassia politica – difficile e controversa -, che portò nel 1995 alla nascita del Movimento Sociale Fiamma Tricolore di Pino Rauti e nel 1997 alla nascita del Fronte Sociale Nazionale di Adriano Tilgher (personaggio controverso, proveniente dalle fila di Avanguardia Nazionale, arrestato per apologia del fascismo e stragismo negli anni ’70). Sempre nel 1997 nacque la tanto discussa formazione dell’estremismo di destra: Forza Nuova di Roberto Fiore e Massimo Morsello. Una miscela incandescente di nazionalismo, xenofobia, omofobia, che, nella retorica neofascista, propugna il ritorno ad un cattolicesimo retrivo. E poi nel dicembre del 2003, in un condominio abbandonato dell’Esquilino, vide la luce CasaPound, un centro sociale di giovani che si ispirano al fascismo, abili nell’uso dei social (non a caso definiti «squadristi mediatici»). Il centro si richiama ad Ezra Pound, il poeta americano che nel ventennio fascista vide assorbirsi, come raccolte in un “fascio”, le contraddizioni della destra e della sinistra. Da Marinetti a D’Annunzio: sono questi i lari che popolano il pantheon di CasaPound.
Pur se in un terreno vischioso, il progetto di Fini si muoveva. Vacillava, ma si muoveva. 
Più di tutti poté Berlusconi. Se le acque di Fiuggi avevano lavato la destra sociale, pur tra i tormenti e i mal di pancia dei “duri e puri”, è nelle acque del Popolo della Libertà che affogò il coraggioso progetto di Fini. Quando nel 2009 Alleanza Nazionale si sciolse per confluire nella formazione capeggiata da Berlusconi, iniziò il naufragio dell’operazione che aveva portato ad Alleanza Nazionale, e, con questo, dell’idea di costruire una seria alternativa di destra, capace di strappare la politica al “riduzionismo” berlusconiano, che ne ha fatto pura prassi. In due parole, conquista ed esercizio del potere (quello che oggi ancora parla agli elettori è sempre il Silvio Berlusconi che nel 1994, “disceso in campo”, era riuscito nella mir
acolosa e funambolica impresa di tenere in piedi un’alleanza elettorale con la Lega Nord nell’Italia settentrionale e con il Movimento Sociale Italiano nell’Italia meridionale. L’una predicava la secessione, l’altro la religione della patria).
Il 4 marzo si avvicina. È possibile che ci ritroviamo tra destre che inneggiano al fascismo e Berlusconi che muove le pedine della politica come fossero mezzi di una scalata societaria?
È ancora lunga la strada che porta ad una destra “normale”. Quella che, come abbiamo visto, auspicano persino gli intellettuali progressisti.
Tra la crisi della sinistra, l’avanzare dei 5Stelle, la sempiterna sirena di Berlusconi, ci ritroveremo ancora, complice l’ineffabile legge elettorale, in un sistema politico immaturo, confuso, incapace di costruire le condizioni di una sana, normale, chiara alternanza tra conservatori e progressisti. Quello che serve al nostro Paese. 

*docente dell’università Mediterranea

 

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