Voto di protesta? Niente affatto. Giudicarlo così sarebbe un grave atto di sottovalutazione politica, di superficialità. I cittadini il 4 marzo hanno chiesto il cambiamento bocciando tutti e promuovendo chi, per il momento, lo ha predicato energicamente.
Il «peccato originale» potrebbe essere quello: per chi ha vinto di averlo promesso senza avere la certezza di realizzarlo (la Capitale, docet); per chi ha perso, di essersi limitato ad urlare all’untore (rectius, al pericolo movimentista di M5S e Lega) senza tuttavia dare prova di nulla a supporto dei loro scheletrici programmi, peraltro candidando i soliti con tanti scheletri negli armadi.
GLI «EROI» E GLI SCONFITTI Saranno capaci i nostri eroi (intendendo per tale gli indiscutibili vincitori) di cambiare il Paese? Di garantirgli la crescita, lo sviluppo, il ruolo di garante dei diritti sociali (primi fra tutti la sanità e l’assistenza sociale), il lavoro per i giovani (piuttosto che un diffuso reddito di cittadinanza). E ancora. Una giustizia che funzioni, la sicurezza che ci vuole, una immigrazione contenuta e degna di questo nome, una inclusione dignitosa, la cura delle periferie (sino ad oggi abbandonate a se stesse), un ceto di amministratori locali capaci e chi più ne ha più ne metta.
A ben vedere c’è tanto da fare, forse al di sopra delle capacità rintracciabili esclusivamente in chi ha vinto. Difficili, se non impossibili, le maggioranze che l’aritmetica consentirebbe. Mettere insieme le urla, il biasimo per gli altri a prescindere con lo stringato bisogno di realizzare il cambiamento è cosa davvero ardua. Da una parte, ci sono coloro i quali cercano di rintracciare nella somma delle percentuali un saldo utile e a governare, ancorché di peso politico-culturale diverso. Dall’altro, c’è chi invece vede nel coinvolgimento di tutti la migliore garanzia per girare il Paese come un calzino, tale da stravolgerlo e nel contempo renderlo funzionale al risultato, altrimenti impossibile. I problemi sono tanti e difficile da risolvere. Lottare per l’emersione dell’evasione, che vale quattro leggi di bilancio, non è facile neppure a concepirla, tanti sono gli evasori a regime che contano nel sistema. Fare come dice Gratteri per debellare il cancro delle mafie è davvero difficile, tra collusi, corrotti e distratti nei confronti dell’interesse comune. Bonificare la PA, che tanto ha dato in termini di formazione delle clientele e che tanto assicura in termini di prodotto della corruzione, è roba da eroi della politica.
Nel primo caso, i ruoli da esercitare sarebbero due. Quelli tradizionali. Chi deve governare e chi deve ritornare ad essere ciò che si è stato esercitando una dignitosa e produttiva opposizione. Quella della quale, per esempio, il Pci era specialista tanto da aver guadagnato dal suo corretto e costante esercizio tante vittorie in termini di attribuzione alle collettività dei diritti di cittadinanza.
CALCOLI E STRATEGIE Sul chi deve governare è aperto il gioco dato dalle somme possibili delle espressioni numeriche dei destinatari del consenso popolare. Dunque – per dirla alla Rino Gaetano – sono in gare per la finale le coalizioni M5s/Lega, M5s/Pd, le Larghe intese (centrosinistra e centrodestra), l’Unità nazionale. Vedremo come finirà ma soprattutto valuteremo il grado di possibile sofferenza che ci toccherà per vedere realizzati i diritti, lato sensu, che ci competono.
L’appena trascorso scrutinio elettorale ha comunque operato un netto taglio chirurgico dividendo i vincitori e gli sconfitti, intesi entrambi sia come leader che come partiti/movimenti.
CHI HA PERSO PIÙ DEGLI ALTRI Tra gli sconfitti, vanno certamente considerati quelli che hanno sempre la pretesa di rimanere, in senso negativo, uguali nell’esercizio del loro potere che, alla prova dei fatti, non ha più reso alcunché.
Relativamente al perdente più autentico, il Pd, l’importante è sapersi rialzare dopo la caduta. Ciò che conta è però la modalità, se e dove aggrapparsi. Dunque, dopo il precipizio è indispensabile scrutare la via d’uscita e guadagnarsela. In politica, questo rappresenta la ricetta, il progetto! Ma soprattutto la persona di riferimento: il leader credibile. Senza ciò non si va da alcuna parte. Ecco perché nei Paesi con un alto tasso di autentica democrazia, solitamente anglofoni, per ogni disfatta a pagare non sono i partiti ma i leader, che spariscono nel quasi nulla.
In tutto questo enorme minestrone, dal sapore invero nauseabondo, galleggiano i risultati della Calabria. Essa sarà il prossimo verosimile bersaglio dei “partiti non partiti” che si sono aggiudicati la posta lo scorso 4 marzo. La preoccupazione è che gli stessi esperiranno ogni tentativo per espugnarla. Anche qui, due le ipotesi in mano ad Oliverio: arrendersi ovvero cambiare marcia. Rilanciare è il suo dovere. Realizzare il cambiamento è la dimostrazione di un centrosinistra ancora vitale capace di proporsi (con serie difficoltà) per la vittoria tra 20 mesi. Tutto il resto sarebbe la solita minestra (pardon, il solito minestrone!).
*docente Unical
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