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Salvini-Di Maio e il debito pubblico – di Antonino M. Laboccetta*

Dopo la scossa elettorale del 4 marzo, una faglia divide l’elettorato del Nord da quello del Sud. Grosso modo possiamo dire che il Nord più ricco si è affidato al centrodestra a trazione leghista, …

Pubblicato il: 03/04/2018 – 12:38
Salvini-Di Maio e il debito pubblico – di Antonino M. Laboccetta*

Dopo la scossa elettorale del 4 marzo, una faglia divide l’elettorato del Nord da quello del Sud. Grosso modo possiamo dire che il Nord più ricco si è affidato al centrodestra a trazione leghista, inseguendo la meta della flat tax, mentre il Sud più povero ha dovuto affidarsi al reddito di cittadinanza sbandierato in campagna elettorale dai 5Stelle. Chi il reddito ce l’ha, come la base imprenditoriale e produttiva del Nord, vuole le tasse al 15%. Chi non ce l’ha, vuole il reddito di cittadinanza.
Lungo la linea di faglia rimane il moloch del debito pubblico. E con questo gli impegni dell’Italia con l’Unione europea in un momento in cui si avvicinano le scadenze finanziarie.
Pur mantenendo la dovuta distanza, la Commissione europea ha seguito con attenzione la campagna elettorale del nostro Paese e continua a seguire l’evoluzione dello scenario politico, lasciando filtrare messaggi di autorevoli esponenti delle istituzioni europee che, a fronte di un debito pubblico del 130%, richiamano le nostre forze politiche al senso di responsabilità.
Questo il quadro – se volete, semplicisticamente delineato -, si tratta di vedere se quello che si prefigura come possibile sbocco politico delle elezioni del 4 marzo possa dare – ahimè! – soluzione al problema del debito pubblico e degli incombenti impegni finanziari del nostro Paese. Lo si sa: in campagna elettorale si parla in versi, al governo in prosa. E dovrebbe essere chiaro a tutti che ora non è più tempo di raccogliere le farfalle sotto l’arco di Tito!
La convergenza tra la Lega e i 5Stelle, che si è realizzata per l’elezione dei presidenti delle Camere, potrebbe prefigurare un governo Salvini-Di Maio. Salvini, come esponente di una coalizione che ha conseguito il maggior peso elettorale – e nella quale il partito di Berlusconi è stato costretto ad incassare il risultato del gioc/go leghista – e Di Maio, come esponente del partito che da solo ha riportato più voti.
Gli “apprendisti stregoni” dell’ineffabile sistema elettorale, congegnato per tagliare le ali (5Stelle, riottosi del PD, ecc. ecc.) e realizzare un gabinetto “renzusconiano” guidato magari da Tajani o Gentiloni, si trovano ora fuori dallo schema di gioco: Berlusconi perché costretto a subire la supremazia elettorale di Salvini all’interno della coalizione di centro-destra; Renzi perché pesantemente colpito dall’esito elettorale del 4 marzo, dopo avere già subito una non leggera ammaccatura politica e personale a seguito del referendum costituzionale del dicembre 2016. Non solo: Renzi ha rivendicato e rivendica tuttora, con le pattuglie che gli sono ancora fedeli, un’opposizione “pura e dura”, tant’è che il PD – a mio avviso, sbagliando – si è tenuto fuori dalla partita delle elezioni dei presidenti delle Camere.
Davanti alla prospettiva di un governo Salvini-Di Maio – allargato magari nel sottogoverno ad esponenti di “area” di Forza Italia (quindi, non “organici” a Forza Italia, non foss’altro che per vincere l’ostilità dei 5Stelle nei confronti di Berlusconi), c’è da chiedersi come si metterebbero le cose.
Se guardiamo le carte che Salvini, da un lato, e Di Maio, dall’altro, vorrebbero giocarsi, scopriamo alcuni temi su cui larghe sono le distanze (fisco) e diversi gli accenti (lavoro, pensioni, Europa e migranti). Ma, al tempo stesso, deve pure registrarsi una spinta politica, più o meno interessata, alla convergenza.
Quanto al fisco, il solco che divide le due forze politiche è molto largo. La flat tax di Salvini, rispolverata nel libro di Armando Siri (Flat Tax. La rivoluzione fiscale in Italia è possibile, 2016) è una vecchia idea di Milton Friedman, variamente riproposta anche in passato da Berlusconi, che mira a ridurre in modo deciso la pressione fiscale in modo da stimolare i consumi (soprattutto della classe media) e, attraverso i consumi (i.e..: la domanda), gli investimenti (i.e.: la produzione) e, quindi, l’occupazione. L’idea dei 5Stelle è invece quella di ridurre le imposte per le classi medie, creando una zona di no tax area per i redditi che non superano i 10 mila euro. Ma è soprattutto il reddito di cittadinanza il piatto forte dei grillini, che registra però l’opposizione decisa della Lega. Anche se – dobbiamo dirlo – negli ultimi tempi Salvini sta provando ad edulcorare la sua posizione, facendo filtrare messaggi di apertura che suonano più o meno così: «se il reddito di cittadinanza è un modo di stimolare la ricerca di lavoro e non di dare soldi a chi non vuole lavorare, si può ragionare». Su temi scottanti, come l’Europa e i migranti, la Lega e i 5Stelle hanno accenti diversi: più radicali le posizioni dei leghisti, più moderate quelle dei 5Stelle. Sulle pensioni la cancellazione della “legge Fornero” sembra accorciare le distanze, tanto da suscitare allarmi nelle cancellerie e nelle istituzioni europee, che nella riforma pensionistica dell’ex ministro di Monti vedono invece un argine – nemmeno più tanto solido secondo attuali proiezioni di lungo periodo – rispetto al deterioramento del quadro di sostenibilità del debito pubblico.
Detto questo, proviamo a mettere sul tavolo i cavalli di battaglia di Salvini (la flat tax) e di Di Maio (il reddito di cittadinanza). Cavalli che il duo Salvini-Di Maio non potrebbe non cavalcare una volta al governo, a meno di perdere la faccia davanti all’elettorato di riferimento. Certo, una volta al governo, le rispettive posizioni potrebbero essere addolcite. Gli spigoli limati. I punti di mediazione rafforzati. Ma più di tanto non si può fare. Non si può fare per la semplice ragione che flat tax e reddito di cittadinanza riflettono due concezioni dello Stato radicalmente diverse. La flat tax riflette la visione di uno Stato minimo, che vuole abbattere la fiscalità generale; il reddito di cittadinanza presuppone, al contrario, uno Stato che, proprio attraverso la fiscalità generale, espande il suo ruolo nella società al punto da fare assistenza a chi non ha (o cerca) lavoro. Flat tax e reddito di cittadinanza riflettono pure due concezioni della società radicalmente diverse. La flat tax nella società non vede che un insieme di individui; il reddito di cittadinanza nell’insieme di individui vede la società.
Come comporre queste due visioni una volta al governo? È davvero il caso di dirlo: ai posteri l’ardua sentenza. Il rischio è che il duo Salvini-Di Maio vada al governo solo per fare propaganda. E poi tornare alle urne. Intanto, il Paese, che naviga oggi con un debito pubblico pari al 130% del suo PIL, subirebbe disastri difficilmente rimediabili.
Flat tax e reddito di cittadinanza costituiscono un combinato che per le casse dello Stato è solo un salasso. Dove è stata applicata, l’idea che, abbattendo le tasse, la gente avrà più soldi nelle tasche da spendere per sostenere l’occupazione attraverso l’offerta, ha prodotto, sul piano fiscale, risultati fortemente regressivi che hanno finito per avvantaggiare i ricchi e impoverire lo
Stato. E in uno Stato povero i servizi, la sanità ecc. ecc., se li paga il cittadino con i soldi suoi: sperimentando sulla propria pelle che altro è far pagare il 15% di tasse a chi guadagna 1.200,00 (non restano che bruscolini), altro è far pagare il 15% a chi di euro ne guadagna milioni (fate voi le proporzioni). Al riguardo, non è male ricordare che “finanziarizzazione dell’economia” significa nella sostanza una cosa sola: la ricchezza “risparmiata” viene dirottata lungo i sofisticati canali della speculazione piuttosto che essere impiegata lungo le polverose strade dell’economia reale. Dove si incontrano i bisogni della gente. E non è male ricordare che, fino a quando rimane in piedi l’art. 53 della nostra Costituzione, «Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva», perché «Il sistema tributario è informato a criteri di progressività».
Questo non significa – si badi bene – che in Italia la pressione fiscale non è elevata. Anzi, è elevatissima. Significa che altre sono le vie da battere per ridurre la pressione fiscale. Ma questo richiederebbe altro discorso, che in altro spazio vedremo di affrontare.
Venendo a noi, il debito pubblico rimane sempre lì. Come un macigno. Purtroppo non scompare nemmeno davanti alla prospettiva di un governo Salvini-Di Maio. Anzi, assume sembianze sempre più minacciose.
Fino al 2019 alla guida della BCE ci sarà Mario Draghi. Uno che ha “convinto” anche i più austeri custodi del rigore monetario a comprare titoli italiani sul mercato, stampando moneta. Aiutando così l’Italia a tenere bassi i tassi di interesse e, quindi, il costo del debito pubblico. Una politica monetaria che però non potrà durare.
E dopo Draghi chi guiderà la BCE? Come convinceremo i mercati finanziari a dare credito al debito pubblico italiano? Il governo non è né un talk-show né il palco di un comizio.

*docente dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria

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