La repressione – da parte di dirigenti scolastici – del dissenso studentesco sull’alternanza scuola-lavoro è sintomatica dello stato dell’istruzione pubblica in Italia.
È noto il caso del 7 in condotta ai civili manifestanti del liceo classico “Vittorio Emanuele II” di Napoli, come quello dell’istituto industriale di Stato “Da Vinci” di Carpi, nel Modenese. Lì il preside ha proposto perfino il 6 in condotta al fine di sanzionare la libera espressione del pensiero di uno studente sul social Facebook, critico verso l’imposta alternanza. La morale è chiara: colpirne uno per educarne altri cento. In breve, l’alternanza scuola-lavoro non si può discutere né obiettare, ma va bene per dogma: è verità rivelata, perfetta, insindacabile.
Al contrario, se a scuola c’è bullismo o intolleranza verso discenti o docenti, allora bisogna nascondere i fatti, coprirli, ricalcando la cultura mafiosa di cui spesso si nutre il potere, nel tentativo di sfuggire al controllo pubblico. È successo ad Alessandria, come sappiamo, e mi risulta che sia avvenuto anche a Catanzaro, sempre ai danni di un professore. Nello specifico, il dirigente scolastico e il suo vice avrebbero chiesto alla vittima di tacere, peraltro non assumendo provvedimenti disciplinari.
La degenerazione della scuola pubblica è figlia del processo di aziendalizzazione avviato negli anni ’90, che ha confinato l’attività didattica e formativa all’interno della logica bancaria del debito-credito, degradando il sapere a nozionismo funzionale al ciclo produttivo, con grave danno per la capacità di giudizio critico del singolo studente, ridotto a (divenire) operatore fungibile della grande catena di montaggio del sistema capitalistico.
Ciò si è compiuto nel grande silenzio della vecchia politica, che ha subìto inerme il progressivo sfaldamento dello Stato di diritto, dello Stato sociale e dei fondamenti costituzionali della scuola: libertà, istruzione di base gratuita e sostegno pubblico dei capaci e meritevoli.
L’aspetto più grave è che la riferita aziendalizzazione della scuola è stata introdotta, assieme alla regionalizzazione della sanità, essa stessa aziendalizzata, per superare, a vantaggio del privato, il concetto di Stato come organizzatore e contenitore dell’attività e dei servizi pubblici, ma anche per accelerare i tagli alla spesa, in seguito sospinti dal «Trattato sulla stabilità, coordinamento e governance nell’unione economica e monetaria», col quale è stato inserito in Costituzione il pareggio di bilancio.
In sintesi, è stata cancellata l’istruzione pubblica come prerogativa dello Stato garante, aprendo spazi sempre maggiori all’ingerenza e influenza del privato, che dunque può dettare la linea sulla didattica, comunque imprigionata in un modello aziendale, in cui il preside è manager e gli studenti sono assimilabili a clienti.
L’istruzione pubblica dovrà essere una priorità della nuova legislatura, di là dai rapporti di forza in seno al parlamento. L’obiettivo primario è restituire centralità alla didattica, intesa come condivisione tra gli attori scolastici, come corresponsabilità nel delicato processo di formazione dell’individuo e della società, che va affrancato dalle logiche, dalle pratiche, dalle “infiltrazioni” del mercatismo capitalistico.
*senatrice M5S
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