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Morire sul lavoro: dal dolore passiamo all’azione collettiva

di Antonio Viscomi*

Pubblicato il: 06/04/2018 – 13:37
Morire sul lavoro: dal dolore passiamo all’azione collettiva

Una fiaccolata notturna dal cimitero al luogo del dramma. E la Città di Crotone in lutto cittadino. Due eventi altamente simbolici, in grado di toccare le corde profonde di una comunità ferita dalla morte di due operai: italiano, l’uno; romeno, l’altro. A differenza dei diritti, la morte sul lavoro non conosce passaporti, dogane e confini. Giuseppe Greco, 51 anni, e Kiriac Dragos Petrule, 35 anni, non sono i primi: dall’inizio dell’anno, i morti sul lavoro sono oltre 150. Purtroppo, non saranno gli ultimi: l’anno scorso, le denunce di infortunio sul lavoro con esito mortale sono state 1029 (746 in occasione di lavoro e i restanti in itinere).
Di fronte a questi dati, il rischio di ricorrere, anzi di rincorrere una vuota retorica è elevato: a leggere le dichiarazioni sulla stampa mi pare di poter dire che “più-ispezioni-più-sanzioni” sembra essere il mantra oggi maggiormente preferito e contende il primato con la dichiarazione, e meglio sarebbe dire oggi: l’hashtag, “mai-più”. Eppure, a stare un poco in silenzio, è possibile ascoltare l’eco di parole antiche che rischiano di essere consumate dal tempo ma che stanno lì a testimoniare la permanente tragicità di un fenomeno che talvolta avrà pure cause, diciamo così, accidentali e fortuite, ma che il più delle volte trova origine in precise ragioni economiche, organizzative e culturali che devono essere aggredite in modo sistematico e con estrema e lucida consapevolezza.
A partire dalla riaffermata centralità dell’articolo 41 della Costituzione, in virtù del quale sicurezza, libertà e dignità umana presidiano e delimitano la stessa potenzialità espansiva della libertà di iniziativa economica. Per essere ancora più chiari, l’ha ricordato recentemente anche la Corte Costituzionale con la sentenza n. 58/2018: “Rimuovere prontamente i fattori di pericolo per la salute, l’incolumità e la vita dei lavoratori costituisce condizione minima e indispensabile perché l’attività produttiva si svolga in armonia con i principi costituzionali, sempre attenti anzitutto alle esigenze basilari della persona”.
Ma, appunto, quali sono i “fattori di pericolo” che devono essere prontamente rimossi? È questa la domanda alla quale occorre rispondere con attenzione, perché dalla individuazione di quei fattori derivano anche le strategie di contrasto. E qui però bisogna fare qualche passo in avanti rispetto alla pure doverosa invocazione di controlli adeguati (non più controlli, direi, ma piuttosto migliori controlli).
Ribadire, ad esempio, che in un mercato globale la competizione non può passare solo e soltanto per la riduzione del costo – e il primo costo da ridurre risulta essere, ovviamente, quello del lavoro e della sicurezza sul lavoro – ma deve semmai essere giocata sulla qualità e dunque sull’innovazione di processo e di prodotto. Solo in questa prospettiva i costi della sicurezza, non diversamente dalle risorse impegnate per ricerca e sviluppo, possono essere considerati (e trattati) a stregua di investimento competitivo per le imprese, o almeno per le imprese non afflitte da quello che gli economisti chiamano short-termism. E se questo vale per mercati privati, a maggior ragione vale anche per il settore delle opere a committenza pubblica, là dove gli effetti perversi del criterio del massimo ribasso – anzi: i danni da esso provocati – sono ormai ben chiari a tutti.
E bisogna ancora dire che l’organizzazione in sé è un fattore di rischio e che turni di lavoro reiterati e pesanti, precarietà professionale, eccessiva variabilità dei ruoli svolti e così via sono tali da usurare l’equilibrio psico-fisico del prestatore di lavoro e minare alla radice la stessa capacità di svolgere una attività in condizioni di sicurezza: basta dare uno sguardo alle statistiche per rendersene conto. Per questo, occorre mettere fine ad un approccio culturale consolidato per cui la sicurezza è ordinariamente intesa a stregua di qualcosa-che-viene-dopo e acquisire invece il principio in virtù del quale la sicurezza deve essere l’orizzonte tenuto in considerazione fin dall’iniziale progettazione dell’organizzazione produttiva e del lavoro.
E infine occorre sottolineare che la sicurezza non è, non può essere una questione da affidare o imputare al solo datore di lavoro: la garanzia di livelli adeguati di tutela invoca la partecipazione diffusa delle organizzazioni sindacali e la formazione costante dei singoli lavoratori. E ciò vale, in particolare, nel sistema delle piccole e piccolissime imprese, cioè là dove è invece più difficile che l’organizzazione e l’attività sindacale possa agevolmente radicarsi.
Insomma, a me pare che parlare di sicurezza sul lavoro focalizzando l’attenzione sui controlli e sulle regole tecniche e procedurali non sia più sufficiente. È necessario semmai comprendere che l’incremento dei livelli di sicurezza non può aversi senza un incremento dei livelli di qualità del sistema di organizzazione produttiva e del lavoro. E questo richiede non solo adeguate politiche pubbliche di sostegno, ma anche un diffuso coinvolgimento partecipativo delle organizzazioni sindacali e una qualificazione formativa costante dei lavoratori. Letto in questa logica, l’art. 41 Cost. non assume una funzione meramente protettiva, ma ne svolge una positiva dal momento che sicurezza, libertà e dignità umana non costituiscono meri limiti all’iniziativa economica ma semmai fattori propulsivi di innovazione produttiva, da sostenere anche mediante interventi ad hoc.
Ecco, l’auspicio è dunque che la fiaccolata di questa sera e il lutto cittadino siano l’occasione per trasformare il dolore in azione collettiva, riscoprendo l’importanza di una rete solidale spesso frantumata da logiche individualistiche e rivendicando fin da subito l’elaborazione di politiche pubbliche adeguate, coerenti e sostenibili capaci di dare senso e significato, qui ed oggi, alle norme scritte in Costituzione.

*deputato del Pd

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