Non avrei scritto. Era questa la decisione immediatamente dopo l’epilogo giudiziario del “caso Scopelliti”. La cronaca dei fatti era stata, come sempre, coperta con rigida professionalità e algido distacco dai colleghi Bellantoni e Candito. I commenti non servivano, la storia si portava dietro inevitabilmente dei risvolti personali.
Non mi hanno fatto cambiare idea le tante, e pure sincere e disinteressate, sollecitazioni di queste ore: amo farmi male da solo. E in questo caso galeotti sono stati i versi tratti da “Antologia di Spoon River”:
Non ero amato dagli abitanti del villaggio
perché dicevo il mio pensiero
e affrontavo quelli che mancavano verso di me
con chiara protesta
non nascondendo né nutrendo
segreti affanni o rancori.
La lingua è magari un membro indisciplinato
ma il silenzio avvelena l’anima.
Nessun uomo è un’isola e il “modello Reggio” aveva provocato danni personali a molti. Sarebbe ipocrita tacerlo. Fu brutale l’esercizio del potere da parte di Scopelliti, già all’indomani del suo insediamento quale governatore. Il suo pugno di ferro, in uno con una imprenditoria scodinzolante davanti al potere, pose fine all’esperienza di “Calabria Ora”. Lo dicemmo apertamente e senza ammiccamenti. Nessuno ha mai osato smentire.
La sua avversione divenne anche personale, carica di un livore assolutamente impensabile per chi lo aveva conosciuto agli esordi della sua vita pubblica. Con Lucio Musolino fummo trascinati in giudizio per avere scritto cose che solo una magistratura “distratta” aveva prima consegnato alle cronache e poi… trascurato. Un milione di euro la richiesta risarcitoria. È finita con la condanna di Scopelliti per lite temeraria. Dovrà pagare 40mila euro ai nostri legali e risarcire con separato giudizio i danni. Inutile dire che tale facoltà non è stata (né verrà) esercitata da nessuno di noi.
Insomma, ce le siamo date di santa ragione.
E tuttavia c’è una stagione per tutte le cose. La stagione della contrapposizione netta, dura, risoluta, convinta, avversa alla triste evoluzione che, a nostro avviso, aveva intrapreso la storia politica di Peppe Scopelliti, era finita il giorno stesso delle sue dimissioni. La foto dell’allora governatore che rassegnava le dimissioni poneva il sigillo finale ad una battaglia giornalistica che non fu da noi voluta ed anche ad una durissima contesa personale che noi subimmo.
Il giorno dopo fummo pronti a ospitare comunicati, interventi, dichiarazioni, iniziative di Peppe Scopelliti. Il suo nome era scomparso dalle cronache dei giornali che sculettavano attorno a Palazzo Alemanni, dai palinsesti televisivi l’epurazione era totale. Ognuno aveva qualcosa da farsi perdonare. Non noi: liberi di attaccarlo, liberi di ospitarlo, liberi di rinfacciargli le speranze tradite, ma anche liberi di riconoscergli le cose ben fatte (esempio dare una casa propria a Consiglio e Governo regionale). Soprattutto liberi di sottolineare le cattive compagnie che ne hanno devastato immagine e credibilità.
Già, le cattive compagnie. Che fine hanno fatto nani, ballerine, gran sacerdoti, promotori finanziari, pubblicitari, organizzatori di mostre, tour operator maltesi, giornalisti d’accatto, aspiranti miss tutto, starlette dei palcoscenici? Molti proseguono, sotto altre insegne, nella loro azione di saccheggio del bene comune. Altri giurano di non aver avuto nulla a che spartire con il “modello Reggio”. Qualcuno fa capolino perché teme gli vengano sbattuti in faccia i suoi trascorsi da “Scopelliti boys”.
Perché con Scopelliti c’è un prima e un poi. Perché di Scopelliti ne abbiamo conosciuto, frequentato, visti in azione, due. Quello che infrangeva le regole e apriva le finestre di uno dei palazzi più chiacchierati delle istituzioni italiane. Quello che rivoluzionava gli uffici del consiglio regionale e quello che infrangeva due tabù storici per la Calabria: era il più giovane presidente del Consiglio ma era anche il primo reggino a sedere sullo scranno più alto della massima assemblea elettiva calabrese. Veniva dalla comunità dei “Boia chi molla”, ma quando Reggio era stata squassata dai Moti aveva appena sette anni. Militava nella destra più intransigente ma era quella “destra sociale” radicata nei quartieri e lontana dalla borghesia parassitaria tipicamente reggina. Altro che autoesaltazione, abbiamo conosciuto il Peppe Scopelliti capace di passare la notte di Natale in un ospedale a tenere compagnia all’amico con il figlioletto ricoverato.
Ecco spiegata la ragione per la quale molti in queste ore si sentono a lui attaccati con il cuore e con la mente. Si sentono partecipi di questa sua pagina drammatica molto più di quanto non lo furono dei momenti di euforica vittoria. Sono quelli della prima ora, dei sogni e delle speranze, delle nottate romane in cerca di fortuna, o delle serate in pizzeria nel dopo allenamento alla Viola, del blitz al “Bagaglino” per tifare Misefari e Battaglia. Sono i Gigi ed i Peppe, i Mimmo e i Lillo, i Fausto ed i Valerio. Che poi sono anche quelli che hanno vanamente sgomitato, negli anni del delirio e dell’autoesaltazione, per strapparlo ai city manager ed ai capitani di ventura che avevano cinto d’assedio “Peppe”, controllandone ogni singolo respiro, condizionandone ogni minima iniziativa, orientandone anche ogni minuscola scelta.
Tanto il conto lo paga lui e lui solo. Lo paga in termini personali e politici.
Lo paga, e questo dovrebbe bastare a zittire tutti, chi lo ama intensamente e ha tutto il diritto di considerarlo il suo eroe.
Altri, invece, recitano il pianto antico della politica che non gradisce di essere giudicata. Dispiace che alfiere di questa scelta sia Jole Santelli, in passato sottosegretario alla Giustizia. Definisce la sentenza un «orrore giuridico», parla di «vulnus» delle prerogative della politica. Insomma se non proprio un complotto, qualcosa di simile. Verrebbe da chiederle se ha letto gli atti del processo, le testimonianze, le vergognose prese di distanza di qualche collaboratore strettissimo. Se conosce gli uomini e le donne in toga (quindici in tutto, tra indagini preliminari e Cassazione) che si sono occupati della vicenda giudiziaria. Soprattutto vorremmo chiedere a chi ha avuto incarichi di governo nel Paese se ha letto, visto che accenna al vulnus delle prerogative politiche, l’ispezione del Ministero delle finanze che originò accuse e processo. La Procura non mosse un dito contro Scopelliti, fin quando sul suo tavolo non arrivarono tre faldoni zeppi di accuse gravissime che stavano all’origine di un buco finanziario per centinaia di milioni di euro. Onorevole Santelli, chi mandò gli ispettori e chi decise l’invio di copia del loro rapporto alla Procura della Repubblica, fu un ministro autorevolissimo del governo Berlusconi, del quale lei stessa faceva parte: il ministro Giulio Tremonti.
Evitiamo, allora, solidarietà pelose e improbabili crociate contro una magistratura che se una colpa ha forse è proprio quella di aver fatto pensare per lungo tempo alla possibile impunità. Forse magistrati più puntuali avrebbero evitato a Scopelliti di cadere in mano a city manager di pessima fama e di sedersi a tavoli dai quali, se ti ci siedi, non puoi pensare di alzarti quando vuoi. Paradossalmente proprio la dura prova di queste ore restituisce libertà a Peppe Scopelliti. Lo libera da amicizie interessate, da tavoli troppo in penombra, da avventurieri politici e da arrampicatori spericolati.
Torna uomo libero, come chi esce dal tunnel perverso del potere, come chi finalmente scende da quelle maledette montagne russe avendone, vomitando, ultimato il percorso.
Come ci sia finito dentro, per molti suoi amici autentici, rimane un grande mistero. Resta tale anche per noi. Avremmo grande desiderio, personale e professionale, di risolverlo e chissà che un giorno non si riesca a guardarci negli occhi con Peppe Scopelliti per mettere sul tavolo le tessere mancanti alla ricomposizione di un puzzle politico e umano fin qui indecifrabile.
direttore@corrierecal.it
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