È un momento nel quale molto si parla «a sinistra» e poco si parla «di sinistra». A livello nazionale e a livello locale. Nelle stanze della politica si discute della crisi della sinistra, ma non di come la sinistra possa rifondarsi. È lecito il sospetto che lo si faccia per sparare sui feriti, per rivendicare posizioni, per costruire ruoli. In definitiva, per occupare potere. Ma è come voler continuare placidamente le danze sul Titanic mentre il Titanic sta colando a picco.
Disturba, peraltro – e non poco –, che non tragga le conseguenze del voto chi era al timone, a qualsiasi livello di responsabilità e a qualsiasi latitudine (nazionale e locale), quando la nave impattava. Facendosi semplicemente da parte e limitandosi solo al contributo di idee. Non è il modo di affrontare e superare la crisi della sinistra l’arroccamento su posizioni che il voto del 4 marzo ha messo chiaramente a ferro e fuoco. Attenzione: è bene rammentare che il consenso della sinistra non è mai arrivato così in basso! Tanto che si parla di «estinzione» della sinistra. In passato, nemmeno troppo lontano, ben altri leader hanno avuto il coraggio (e la statura) di lasciare il timone quando ben altro era il livello di quota cui era scesa la sinistra dopo la sconfitta. Oggi, se nulla può – nemmeno la prospettiva dell’inabissamento – disarcionare i gruppi dirigenti, beh, qualcosa che non torna sicuramente c’è. Non mi pare, però, la logica di chi sinceramente è interessato a ricostruire le basi ideali di una nuova sinistra.
Parlare «di sinistra» significa costruire un’idea culturale, prima ancora che politica, da cui guardare attraverso la lente dei valori tradizionali della sinistra il mondo che rapidamente cambia sotto i nostri occhi. Papa Francesco, per descrivere la «continua accelerazione dei cambiamenti dell’umanità e del pianeta», usa un termine prestatogli dallo spagnolo: «rapidación», che si traduce con il brutto ma significativo neologismo «rapidizzazione» (Laudato si’, 18).
È un mondo, il nostro, che si è lasciato alle spalle il novecento con tutta la ricchezza dei suoi drammi e delle sue conquiste. Molte delle categorie novecentesche sono venute meno e vanno ripensate. Ricostruite. Non è possibile pensare al mondo che cambia senza “categorie”. Perché senza categorie rinunceremmo a strutturarlo e, quindi, a comprenderlo (che significa cum + prehendere, e cioè pensiero che riorganizza e ridisegna l’assetto precedente). Senza questa “comprensione” rinunceremmo a guidarlo. Senza categorie ci abbandoneremmo alla “liquidità” dei cambiamenti. Senza categorie la politica abdicherebbe al ruolo di guida della società. Finendo per farsi trasportare dalle forze, più o meno oscure, che muovono le acque dell’economia.
Per essere chiari, mi limito ad un esempio: il novecento ha conosciuto la categoria del lavoro. E l’ha “compresa”, strutturata attraverso la dicotomia del lavoro subordinato e del lavoro autonomo. Con questa ha segnato confini. E ha consentito l’actio finium regundorum. Ma è ancora possibile comprendere il mondo del lavoro attraverso questa categoria? Possiamo dire che esiste «il lavoro» o dobbiamo dire che esistono «i lavori»? Possiamo dire che tutto è riconducibile a quella categoria o dobbiamo dire che oggi tanti lavori non li possiamo comprendere con (o in) quella categoria? Se un cambiamento si configura, come lo possiamo affrontare? Lo lasciamo all’economia? Alla forza della sua autoregolazione? O lo affidiamo al potere della politica? Chi rappresenta i “nuovi lavori”? La sinistra ha elaborato una propria autonoma “comprensione” di questi cambiamenti? Oppure ha preferito accomodarsi in salotto a seguire l’onda lunga che, a partire dagli anni 80 del novecento, non fa che imperversare a varie latitudini? Quando è andata al governo, la sinistra ha segnato la differenza? Se non l’ha fatto – perché non l’ha voluto o saputo fare -, non può rimproverare la gente che tra l’originale e la copia ha preferito l’originale. Né può rimproverare la gente se ora ha capito che né l’originale né la copia sono riuscite a sanare le ferite che, a partire dall’ultimo decennio del novecento, hanno via via lacerato il corpo sociale. Producendo enormi ed inaccettabili disuguaglianze. Facendo sprofondare nella povertà la classe media. Sotterrando i poveri. Bloccando la mobilità sociale. Mistificando l’idea del merito, sapientemente costruita e veicolata come la condizione di chi è arrivato e non come quella di chi aveva tutte le carte per poter e dover partire. In definitiva, non si può rimproverare la gente se ha buttato all’aria originale e copia, rovesciando il tavolo. Votando il populismo. Se la gente ti grida che non ha più pane, non gli puoi distribuire brioches!
I rischi, che l’Italia in questo momento corre, sono enormi.
Bene ha fatto il Presidente della Repubblica quando, nel corso delle consultazioni, ha piantato due paletti: l’impegno “economico” nei confronti dell’Unione europea e l’impegno “politico” del rispetto dei Trattati. È la cornice all’interno della quale va dipanata la matassa del governo, anche se sulla nuova governance europea si aprirà nel corso dell’anno un dibattito a livello di capi di Stato e di governo.
Ruolo neutrale, quello che fin dall’inizio del suo mandato si è ritagliato il Presidente della Repubblica. Non “interventista”. Ma in questo delicatissimo e grave passaggio istituzionale, piantati questi paletti, dimostra di voler svolgere il ruolo che pure è proprio del Presidente della Repubblica: quello di essere “reggitore” dello Stato nei momenti in cui la democrazia fatica a trovare l’assetto che il voto popolare gli ha voluto imprimere.
Mi sono limitato, in maniera grossolana, ad un esempio: quello del mondo del lavoro per chiarire il discorso che, in questo primo accostamento al dibattito in corso sulla sinistra, vuole essere più di metodo che di sostanza. Ma tanti sono i tavoli su cui la sinistra deve costruire le proprie categorie culturali, prima ancora che politiche. Ma su questo mi riprometto di tornare.
Parlare di sinistra significa parlare di “cosa” e di “come” la sinistra debba essere oggi. In questo nuovo millennio. Sospinto, attraversato, percosso da cambiamenti impetuosi. Che riguardano la nostra vita comune, le nostre famiglie, le nostre relazioni umane e sociali, il lavoro, le vie e le forme dello sviluppo, la democrazia.
L’ondata elettorale del 4 marzo ha investito la sinistra “geneticamente modificata” nel chiuso dei laboratori. Lontana dalla gente comune. E riguarda non soltanto la sinistra italiana. Riguarda, più in generale, la sinistra nel mondo. Perché è l’idea di sinistra, col suo carico tradizionale di valori, che ha impattato con un mondo cambiato. A cui non ha saputo dare la propria autonoma risposta. A cui non ha saputo dire, pur con tutta la sua antica ricchezza, una parola nuova. Diversa.
*docente dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria
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