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Autobomba a Limbadi, si indaga sull’esplosivo

Dalle risse per un terreno da 300 metri quadri all’attentato. Una reazione “sproporzionata” in un’area già nel mirino degli inquirenti. Accertamenti sulla tempistica scelta per piazzare l’ordigno. …

Pubblicato il: 11/04/2018 – 0:16
Autobomba a Limbadi, si indaga sull’esplosivo

VIBO VALENTIA Sono tanti i tasselli che gli investigatori dovranno recuperare, e poi mettere insieme, sull’attentato che lunedì sera è costato la vita a Matteo Vinci, 42 anni, biologo, ex rappresentate di medicinali, e che ha quasi ucciso suo padre, Francesco Vinci, 73, ex carrozziere, oggi ricoverato nel reparto grandi ustionati di Palermo. Nel tardo pomeriggio padre e figlio tornavano a casa dopo qualche ora trascorsa nella loro proprietà tra le campagne di Limbadi quando, in località Cervolaro, in una stradina stretta, costeggiata dal verde, l’auto è esplosa. Un boato avvertito in tutto il circondario che ha stracciato la Ford Fiesta e non ha lasciato scampo al 42enne. Nonostante le ustioni e lo shock il padre è riuscito a salvarsi, a chiamare sua moglie e chiederle di avvertire i soccorsi.
INDAGINI SULL’ESPLOSIVO In un primo momento si era sparsa la notizia che il gpl che alimentava la macchina fosse causa della esplosione ma sono bastati pochi minuti ai carabinieri intervenuti sul posto per capire che era stato dell’esplosivo a far saltare in aria la macchina. I militari del Nucleo Operativo e del Nucleo Investigativo di Vibo e i magistrati della Dda di Catanzaro stanno ora cercando di capire, ed è uno dei tasselli che andranno recuperati, di quale tipo di esplosivo si tratti e se possa essere riconducibile ad altri attentati o atti intimidatori. Eppure, a Limbadi, nella storica roccaforte della cosca Mancuso, le ‘ndrine hanno sempre, o quasi, mantenuto un profilo basso. In un periodo in cui il Vibonese è più che mai sotto i riflettori delle forze dell’ordine e dell’antimafia, nel giorno stesso in cui la Dda di Catanzaro aveva operato sette fermi a Sorianello, attirare l’attenzione anche su Limbadi è una strategia che si presenta quantomeno inusuale.
300 METRI QUADRI Far saltare in aria una macchina, strategia degna dell’agguato al boss più accorto, è sintomatico di una vendetta alimentata da un odio profondo. I Vinci erano persone senza alcun legame con la criminalità organizzata. Vivevano coltivando un fondo di loro proprietà. Ma avevano, sì, dei nemici. Il terreno dei Vinci confina con quello dei Di Grillo-Mancuso. Ma il confine tra questi due terreni è conteso. C’è una porzione che ognuna delle due famiglie attribuisce a sé. Una porzione, pare, di poco più di 300 metri quadri sulla quale penderebbe una causa civile. Gli investigatori non escludono nessuna pista.
Le liti per quei terreni sono la spina nel fianco nella vita della famiglia Vinci. Nel 2014 i due gruppi familiari erano arrivati allo scontro che aveva coinvolto Matteo Vinci ed il padre, da una parte, ed alcuni esponenti della famiglia Mancuso dall’altra, tra cui Rosaria Mancuso, sorella dei boss dell’omonima cosca di Limbadi (Giuseppe, Francesco, Pantaleone detto “l’Ingegnere”, e Diego Mancuso). Le due parti, in quella occasione, vennero arrestate. In un’altra occasione, a ottobre 2017, scatta un’altra rissa violenta. A minacciare a colpi di forcone Francesco Vinci sarebbe stato Domenico Di Grillo, 71 anni, marito di Rosaria Mancuso. In questo caso la vittima aveva sporto denuncia. Per quanto altro non emerga nella vita della famiglia Vinci è notevole la sproporzione tra le risse avvenute in precedenza e l’automobile che salta in aria, trascinando queste liti familiari per un pezzetto di terra nelle cronache nazionali. Sproporzioni che interrogano chi in questo periodo stava indagando sulla provincia di Vibo che aveva visto, in meno di due settimane, eseguire tre ordinanze di fermo contro le cosche locali. Un altro fermo è stato eseguito martedì nei confronti di Domenico Di Grillo che nel corso delle indagini, dopo l’esplosione, è stato trovato in possesso di un fucile detenuto abusivamente.
«ABBIAMO SUBITO PER ANNI» Chi non nutre dubbi sull’accaduto è Rosaria Scarpulla, madre di Matteo Vinci e moglie di Francesco Vinci. «In questi anni abbiamo subìto soprusi di ogni genere da parte della famiglia Mancuso, che voleva a tutti costi un nostro terreno confinante con il loro. Lottiamo da anni per difendere quelli che sono i nostri diritti. Ma queste persone sono inferiori a noi e non meritano niente. Noi non cederemo mai e non abbiamo paura. Ed a questo punto lo faremo anche per onorare la memoria di mio figlio Matteo», ha detto in una intervista al Tgr (qui le sue dichiarazioni). Alle parole della donna si aggiungono quelle dell’avvocato di famiglia, Giuseppe De Pace, che definisce i Vinci: «Una semplice famiglia di modesti lavoratori cercava, aggrappandosi alla giustizia, di difendere i propri pochi beni dalla famelica aggressività mafiosa: una condotta di lesa maestà che un “quisque de populo”, agli occhi di certi “circoli”, non può osare di mettere in atto. Come il modesto imprenditore, Libero Grassi, negli ultimi decenni del ‘900 in Sicilia, Matteo Vinci è il resistente del nostro tempo alla protervia mafiosa in Calabria».
TASSELLI Restano, però, ancora diversi tasselli da mettere al proprio posto: quando è stato piazzato l’ordigno che ha fatto saltare la Ford Fiesta? Quando i Vinci erano in campagna, intenti a curare i loro terreni? Come è stato azionato? Perché un’azione così eclatante e vistosa? Interrogativi che restano nell’attesa che vengano eseguiti i rilievi scientifici e che Francesco Vinci, dichiarato fuori pericolo, possa parlare con gli inquirenti e ricostruire l’orrore della tragedia che ha vissuto.

Alessia Truzzolillo
a.truzzolillo@corrierecal.it

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